Chi lavora è perduto: parola di Tinto Brass
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Dai Bonifacio,
Dai Bonifacio,
Dai che ce la facio
Dai che ce la facio
Dai che ce la facio
Dai che ce la facio…

La prima versione di Chi lavora è perduto (1963, regia di Tinto Brass, disponibile in edizioni Raro Video, oltre che disponibile su Prime Video), uscì col titolo In capo al mondo. A sentire lo stesso regista, qui al suo primo film in assoluto, venne rigettato dalla censura e considerato “offensivo della morale, della famiglia, della patria, di tutto“. Brass in seguito lo ripropose semplicemente con un titolo diverso, considerando che gli elementi della commissione censura erano nel frattempo cambiati, e venne questa volta accettato, senza tagli nè rimaneggiamenti tipici, purtroppo, di casi del genere.

Il primo film di Tinto Brass è un singolare saggio sull’ozio, girato come si farebbe oggi con un film indipendente, ed incentrato su un messaggio univoco: un personaggio che si dichiara contro l’alienazione del mondo del lavoro, e per estensione contro il lavoro in sè, considerato alienante quanto logorante. Si trattò di uno di quei film non certi trattati bene dalla censura, per quanto in questo caso rimasto integro e “protetto” da tagli non autorizzati, grazie ad una certa lungimiranza del regista e ad una serie di circostanze favorevoli.

Qualche anno dopo, Brass avrebbe girato pure Il disco volante, un b-movie satirico modello I mostri, quasi sulla medesima falsariga, ma qui il feeling è più apertamente neorealista: si racconta infatti la storia di Bonifacio B. (Sady Rebbot), un giovane grafico esordiente nel mondo del lavoro, preda di qualche vaga psicosi dopo essere stato alle prese con un invadente colloquio di lavoro.

Gran parte del film procede come un flusso di coscienza del protagonista, che non ha evidentemente le risposte di cui avrebbe bisogno, ed è tormentato dall’accettare o meno il prestigioso posto che ha trovato, che intravedere fin da subito come opprensivo e spersonalizzante. Riflette così confusamente sulla natura umana, sulla morte e su quanto sia insopportabile la psicoanalisi lavorativa che ha indagato, ad esempio, sui suoi gusti personali, sulle posizioni politiche e sulla sua visione del sesso e della socialità.

Iniziato in bianco e nero artistico, il film vira sul colore solo in un momento: quando si mostra il funerale di un partigiano, piena di bandiere rosse dell’allora PC e suggestivamente condotto sulla laguna veneziana. Sono i ricordi degli ideali anarchici che guidano il protagonista, condotto così ad una sorta di auto-analisi che rimette in discussione il suo passato, i valori che lo guidano, gli amici a cui si affida ogni giorno. Molte sue osservazioni saranno in dialetto veneziano, come del resto gran parte del parlato del film. Gran parte de Chi lavora è perduto è costituito da ricordi e pensieri figurati, alternati al girovagare senza meta del protagonista, in un alternarsi di fantasia e realtà.

Il primo ricordo, ad esempio, è un flashback in cui Bonifacio rivede la figura del padre (o del nonno) ai tempi del fascismo, oppresso dai suoi atteggiamenti autoritari quanto grotteschi, insofferente agli ordini quanto abile a svignarsela durante una riunione di famiglia, con in sottofondo un comizio del regime. Il ricordo è girato con stile meccanico- surreale, e sembra fare uso – in alcune delle sequenze più marziali – di riprese in passo uno, che ricorreranno anche in altri momenti. È la volta della religione cattolica, inculcata al giovane un po’ per forza di cose mentre oggi, da adulto, non ricorda neanche più l’ultima volta in cui si è confessato. Poco dopo vede un prete che accompagna dei ragazzini in giro per Venezia, ed immagina senza mezzi termini di spingerlo giù nella laguna.

Sono diversi i ricordi che si affacciano nella sua mente: i tempi della leva militare, da lui vissuta con un perenne sorrisetto disilluso, alla prese con regole incomprensibili ed un generale appassionato di ornitologia, che parla esclusivamente in rima. Il senso di apatia o “la fiacca“, come dice il protagonista, sembra germogliare e crescere in lui proprio in questa fase, fino a “perdere il senso di tutto“. La conoscenza di una modella ad una mostra d’arte sembra lenire e addolcire i suoi ricordi, ma  – non essendo certamente un membro dell’Intelligencija– non sembra fare presa sulla donna come avrebbe sognato. È rilevante, in effetti, che non sia caratterizzato come personaggio “elitario pensatore”, sdegnato dal mondo esterno: molto più semplicemente, è un uomo comune, in aperto conflitto con la totalità dei principi del vivere comune.

C’è anche una parentesi sulle difficoltà relazionali: Bonifacio ha troncato il rapporto con sua fidanzata di un tempo, per via di un aborto deciso dalla ragazza (all’epoca proibito in Italia) e per affrontare il quale è dovuto andare con lei fino a Ginevra. Dopo aver letto i risultati del test psichiatrico obbligatorio a cui è stata sottoposta, resta sorpreso dalle risposte taglienti con cui cerca di farsi passare per un’aspirante suicida, pur di poter abortire un figlio che, molto probabilmente, non è neanche di Bonifacio.

La regia, in queste fasi, è abile a confondere realtà vissuta con fantasia desiderata, evidenziando in definitiva Bonifacio non abbia senso sociale e, tutto sommato, ne vada fiero. E c’è un ennesimo dramma dietro l’angolo: un suo amico, militante comunista traumatizzato dopo una manifestazione repressa dalla polizia, è stato rinchiuso in manicomio (sorte che effettivamente spettò a molti partigiani italiani, ad esempio secondo il libro Un’odissea partigiana). Bonifacio guarda poi sconfortato il mondo che lo circonda, prefigurato nella sua apparente perfezione da militari che marciano in pieno centro, ed opponendovi ancora una volta il proprio candore anarchico.

Mi è sempre piaciuta l’anarchia. E non perché è un fatto di violenza, ma perché è soprattutto un fatto di amore. (T. Brass)

Alla fine del film, mentre osserva i dintorni di Venezia con un binocolo, prova ad immaginare che tipo di lavoro gli piacerebbe realmente fare, e si arriva allo zenith immaginifico di Brass: Bonifacio si immagina alternativa porta-mangime a contatto con i turisti cosmopoliti a piazza San Marco, direttore di un “casotto” (un bordello, che poi diventa oggetto di una fantasia erotica in un… salotto piccolo borghese), goffo rapinatore di banche, affermato attore, astuto falsario, gaudente gondoliere.

In ultimo, crede di parlare direttamente con Dio in persona, che immagina comprensivo ed empatico nei suoi confronti, oltre che disposto ad accettare il fatto che a lui non vada realmente di fare nulla: soprattutto perchè, infine, Bonifacio evoca l’arbeit macht frei, lo stesso che capeggiava sui lager nazisti – e a quel punto il film si chiude. Questo è, in estrema sintesi, uno dei lavori più politici e personali del regista, che poi riprenderà – in chiave erotica – alcuni di questi concetti all’interno di un successivo film, Salon Kitty.

(Fonte: intervista a Tinto Brass)

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