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Grand Guignol, Marquis De Sade!

Parlare di uno spettacolo teatrale appena visto – DE SADE INFERNO del Gran Guignol de Milan, nello specifico – rischia di suscitare l’effetto evocato da Martin Mull nella sua celebre massima (a volte attribuita a Frank Zappa): scrivere di musica è come ballare di architettura. Scrivere di teatro che cosa può lasciare, in compenso? Non è sicuramente come scrivere di cinema dove, in qualche modo, ciò che vedi non cambia mai, e l’impresa sembra ardua quanto descrivere un’improvvisazione musicale senza fare uso di smartphone. In una totale auto-assunzione di responsabilità, soprattutto nel riportare sensazioni descrivibili per voi che vi prodigate di leggere, ci provo. Uno sforzo proteso alla cristallizzazione di attimi irripetibili, così come avviene – per definizione – in qualsiasi spettacolo teatrale, che rischiano di rendere l’idea solo nella misura in cui il lettore non accetti un “patto” implicito di lavorare, per i pezzi mancanti, di pura immaginazione ed emotività.

Parto ab ovo: avevo visto lo spettacolo del Gran Guignol de Milan (creatura di Gianfilippo Maria Falsina Lamberti dall’anno 2014) solo l’anno scorso, per la prima volta, nel periodo di massima confusione post-pandemica – ovvero durante la breve, ma intensa, parentesi temporale-emotiva in cui i teatri restarono aperti. Era l’ottobre del 2020, e vidi lo spettacolo su Edgar Allan Poe e le quattro possibili ipotesi sulla sua morte. Era anche il periodo in cui mi ero documentato sul fenomeno del Grand Guignol in Italia, un genere poco noto e su cui si è scritto altrettanto poco, nonostante la sua enorme risonanza all’epoca.

Per chi non ne sapesse nulla, portare in scena il genere Grand Guignol non significa solo vedere un thriller-horror a teatro, ma anche assistere ad uno show intenso, grottesco ed onirico che – per quanto faccia sorridere pensarci oggi – era considerato talmente cruento da provocare mancamenti e disgusto al pubblico in sala. Pubblico che, a ben vedere, onora la medesima tradizione masochista inaugurata e formalizzata dal Divin Marchese, dato che continua imperterrito ad andare a vederlo (sebbene non con numeri da vituperato “grande pubblico”, almeno ad oggi).

Questa volta tocca al marchese De Sade, lo stesso che ha ispirato film di culto come Il teschio maledetto di Peter Cushing (di cui ho scorto una citazione, peraltro) e Le 120 giornate di Sodoma di Pasolini (del quale, vale la pena ricordare, ricorre il centenario dalla nascita). Libertino, considerato immorale per i suoi scritti e perseguito da clero, autorità, rivoluzionari francesi e financo da Napoleone in persona, De Sade rappresenta da sempre il marchese dell’inconfessabile, il letterato ostinato e orgoglio che racconta la perversione sessuale in ogni dettaglio, miscelandola con la dimensione gotica prima che (ad esempio) Jess Franco o Joe D’Amato ci cucissero addosso un loro cinema di genere. Lo stesso autore che, con le sue opere, ha ispirato innumerevole cinematografia sadomaso, ma anche colui che ha ingenerato il termine sadico e sadismo, inclusi i casi in cui la valenza sessuale del termine è nulla o, al massimo, implicita.

Lo spettacolo che ho visto stasera palpita e ribolle, giocando sui classici stilemi del Grand guignol (così come li conosciamo dalla non-ricchissima documentazione di cui abbiamo notizia), mentre lo spettacolo è diviso in due parti: la prima surreale, ironica e grottesca, la seconda aderisce – come un perfetto vestitino in latex, verrebbe da dire – ai dettami della scuola Sainati. C’è un delitto, una premonizione, forse una profezia auto-avverante, un richiamo onirico-temporale a quanto abbiamo visto in precedenza. Viene in mente una delle più celebri trame del Grand Guignol classico: quella che racconta di un indiano il quale – durante un climax di eccitazione assieme ad una prostituta – racconta di un delitto che ha commesso, salvo poi constatare che la donna conosceva bene la vittima. Sesso e morte ancora una volta, a braccetto – forse da tempo immemorabile.

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All’ingresso nella piccola sala del Petrolini, inizialmente solo una leggera penombra e qualche lumino – la fiamma rimarrà un elemento di richiamo dello spettacolo. Il lavoro è coinvolgente, teso in alcuni momenti quanto ironico in altri, frutto di un equilibrio ponderato (come già in quello, succitato, su Poe).

La tradizione di Sainati è ancora viva, pertanto, e gode di ottima salute. Non era facile tenerla in vita dopo più di 60 anni dalla sua temporanea scomparsa dai teatri italiani. Dopo anni in cui, peraltro, ci siamo dovuti sorbire i peggiori pipponi su cosa si deve e non si deve fare per fare spettacoli “belli”, dopo tonnellate di anatemi feroci e recensioni in stato di ebbrezza contro l’arte thriller-horror in tutte le sue forme… perché, signora mia, anale non si fa e sado-maso non si dice che poi questi giovani d’oggi – salvo poi rivelarsi parrucconi molesti e grotteschi, non lesinare pettegolezzi sui gusti sessuali altrui o non avere idea della differenza tra genere e sesso.

No, non era facile portare in scena l’opera di De Sade – anche e soprattutto oggi, un’epoca di folle pseudo-relativismo in cui anche il signor Mario Mariotto che è tanto una brava persona avverte esigenza / diritto di sparlare della qualunque. E lo zeitgest di DE SADE INFERNO è forse anche solo nel suo saper raccontare storie antiche che poi, a ben vedere, non sono nemmeno tanto invecchiate. Specie se sono fitte di particolari di natura scabrosa, che turbano (ed eccitano) ancora oggi, dopo più di 200 anni dal loro primogenio concepimento. Dopo aver visto questo spettacolo, del resto, anche il termine libertino finirà per avere una valenza diversa, forse tutt’altro che negativa. E voi godetevi il vostro corpo, dannazione!

Sì, perché il principale motivo per cui inferno De Sade è funzionale quanto scorrevole è dettato dal messaggio di fondo che il regista & protagonista ha voluto affidargli, in cui De Sade non è soo un personaggio del passato che vorrebbe insegnarci qualcosa (tipo il fantasma dei Natali passati, per continuare sulla falsariga del grottesco), ma è anche – o soprattutto – un demone che ci istiga, oggi, a godere di noi, di ciò che abbiamo e che possiamo raggiungere. Viene in mente, a questo punto, il cantautore Faust’o (l’assonanza con il Faust è incidentale quanto, almeno in parte, calzante), con quel suo imperativo che risuona imperterrito dal 1978: godi – è la perversione la tua ultima occasione, la corretta soluzione di una vita vissuta a metá.

Se la scorrevolezza del lavoro teatrale in questione deve tanto alla buona presenza scenica degli interpreti, non ci si può neanche fermare a leggere queste righe e compiacersene: lo spettacolo va visto, quale unicum nel suo genere, sia per una questione bellamente edonistica che per ribadire ai vari strombazzanti (che hanno stroncato troppe volte il Grand Guignol senza neanche guardarlo troppo bene) che se registi come Rob Zombie e Tobe Hooper per si sono ispirati anche indirettamente a queste storie… no, non erano poi così male.

Finisce lo spettacolo, si torna a casa: come la sospirata realizzazione di una fantasia sessuale ricorrente, qualcosa mi ha trattenuto dal rimanere dentro ancora un po’, ripensando a ciò che avevo visto, chiedendone ancora, con voluttà.

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