Halloween – The beginning: un reboot pregevole e degno di attenzione
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Michael Myers è un ragazzino apparentemente debole e complessato, vittima dei bulli come di una american family degradata: dopo aver ucciso quasi tutta la propria stirpe, viene rinchiuso in un ospedale psichiatrico e seguito dal dottor Loomis.

In breve. Reboot in stile Zombie di un cult intoccabile, che il regista non cerca maldestramente di imitare ma che dirige con grande libertà (e molti più mezzi di Carpenter). Il risultato di questo kolossal dello slasher (quasi due ore) è più che apprezzabile, sia come mezzi che come sviluppo narrativo ed interpretazioni, e consacra Zombie tra i migliori registi contemporanei del genere.

Il film parte dal racconto dell’antefatto (appena accennato nella versione originale di Carpenter) dei brutali omicidi del piccolo Michael Myers, colpevole di aver sterminato tutta la sua famiglia (sorella più grande, fidanzato di lei e padre): scene che, per inciso, Carpenter aveva proposto nella prima versione del film, successivamente scartate dalla produzione e qui girate da zero.

Una licenza che ha fatto molto discutere i fan della versione originale, ma che non sfigura affatto in questa versione, senza contare che – come già successo con lo splendido remake de La casa – si ha da subito la sensazione di assistere ad un vero e proprio reboot, non ad un un rifacimento passivo (che non sarebbe stato nelle corde del regista). Fin dalle prime scene, infatti, esce fuori il feeling malato della storia, totalmente privo fronzoli: padre alcolizzato, dal linguaggio sbroccato, violento e con varie perversioni sessuali, madre spogliarellista per necessità e fin troppo comprensiva verso il figlio, sorella teen menefreghista sopra le righe e la piccola sorella di Michael quale unico contraltare “puro”, almeno in questa prima fase (che poi ricomparirà quali baby sitter adolescente nella seconda parte del film). La seconda mostra la crescita del villain, la sua fuga dall’ospedale e la ricerca di nuove vittime.

Halloween The Beginning è, come noto, il film su un piccolo serial killer, e già questa proposta disturba ed incuriosisce lo spettatore; ancor più perchè si tratta di un remake in stile libero, del tutto svincolato dalla scarna semplicità dell’originale. Alla base dell’intreccio del (baby) killer protagonista, un forte senso di livore e disadattamento verso il mondo che lo circonda, tant’è che Zombi lo dipinge – mediante le consuete semplici ed essenziali “pennellate” – come un ragazzino un po’ sovrappeso, apparentemente tranquillo e bullizzato dai familiari come dai compagni di scuola. A seguire il caso, fin dal primo ritrovamento di foto di animali morti nello zaino del ragazzino, ricompare la figura del dottor Loomis (non più Donald Pleasance, bensì l’Alex di Arancia meccanica, Malcom McDowell) e soprattutto il personaggio della madre di Micheal, una iper-protettiva quanto conturbante (come al solito) Sheri Moon Zombie. Zombie fu contrario a richiamare attori del cast iniziale, rinnovandolo completamente e rinunciando pure all’iconica Jamie Lee Curtis per Laurie Strode (qui interpretata da Scout Taylor-Compton), probabilmente anche per una questione di età anagrafica degli attori.

Michael in questo reboot ha una linea di omicidi lucida quanto caotica: non sembra uccidere a caso, e si scaglia contro l’essere umano in genere e le sue perversioni, atrocità e vizi (soprattutto quelli legati al sesso). Tutto il background sembra voler giustificare la sua forza sovrumano-sovrannaturale, ben nota ai fan della serie e qui con basi razionali-psichiatriche, almeno in parte (è l’odio puro verso il mondo, a guidarne le gesta e a renderlo invincibile: molto belle le sedute psichiatriche con Loomis, a riguardo). Zombie risolve le varie sequenze coerentemente con il proprio stile: sicuro, veloce, senza fronzoli e molto splatter, tant’è che non si fa in tempo a caratterizzare i personaggi che risultano già coinvolti nella sua feroce mattanza. Se in altri film tale velocità registica si evidenzia in sequenze a volte troppo caotiche (il pur ottimo 31, ad esempio), in questa fase sembra essere perfetto per la storia, più lunga dell’horror medio – poco meno di due ore – e praticamente priva di tempi morti e lungaggini.

Zombie gira in formato 1.85:1 a 35mm, a differenza di quanto farà nel successivo capitolo da lui diretto. Inoltre cosparge una pellicola dai tratti violenti e molto splatter varie trovate a sorpresa, omicidi sempre differenti nelle dinamiche, tanti omaggi a pellicole del passato (L’isola degli zombi del 1932) e cammeo vari (l’immancabile Sid Haig e Danny Trejo – che assisterà ad una catena di omicidi in un carcere, un po’ come avviene nel truculento video di Repentless degli Slayer).

In definitiva un buon horror crudo e coinvolgente, che non possiede esattamente il dono della sintesi, ma che si colloca di diritto tra i migliori film del genere del periodo recente. Finale iconico, in puro stile exploitation anni ’70.

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