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Il signor diavolo: l’horror ancestrale di Pupi Avati

Anni ’50: Furio Momenté viene inviato dal Ministero nella provincia veneta, al fine di investigare su un macabro caso di omicidio. Un ragazzino, infatti, avrebbe ucciso un coetaneo (probabilmente plagiato da un prete ed una suora) perchè ritenuto di natura demoniaca.

In breve. Tratto dal libro omonimo dello stesso regista, sfoggia un omaggio forte e convinto al genere horror italiano, nella forma più ancestrale, ricorrendo a stilemi già utilizzati in altri suoi film.

Pupi Avati torna all’horror, e lo fa riprendendo i temi ancestrali della paura: nel farlo confida su una fotografia oscura come non mai, oltre a schemi narrativi che non sono mai cambiati – e che fanno riferimento a presunte tradizioni ed oscure leggende radicate nella mente della gente di provincia. Alla fine del film si esplicita che ogni riferimento alla realtà è puramente casuale: ma nel frattempo ne abbiamo viste abbastanza per farci arrivare la suggestione che, forse, non sia davvero così. Era chiaro che un ritorno al genere facesse scalpore: Il signor diavolo, iconico quanto singolare accostamento di termini, fa riferimento ai ricordi d’infanzia del regista e all’educazione rigidamente religiosa ricevuta.  Il diavolo è un avversario della chiesa, chiaramente, ma viene chiamato signor per indicarne una sorta di paradossale rispettabilità: il parroco ha insegnato così ai piccoli ragazzi, perchè (si sente nel film) “le persone cattive bisogna trattarle bene“. Un titolo pertanto molto significativo, oltre che dalla doppia lettura: misericordiosa da un lato, potenzialmente ipocrita dall’altro.

La lettura socio-politica de Il signor diavolo, se non fosse chiara, diventa esplicita quando si chiarisce dall’inizio che l’indagine del giovane funzionario Momentè é mirata a mantenere i consensi elettorali dell’allora Democrazia Cristiana, ed evitare l’attacco da parte degli avversari (o un danno di immagine in termini oscurantisti). In questo vi è una sostanziale anomalia rispetto all’horror italiano, che (tra demoni, possessioni, omicidi e brutalità assortite) in genere si presentava più neutro: qui, invece, come negli horror politici anni ’80 – da cui il film si distacca come forma, ma non come contenuti – la trama viene utilizzata per inviare un messaggio critico ben preciso. Tanto più oggi, con i recenti casi inquietanti (e figli del pregiudizio e della superstizione, almeno in parte) dei diavoli della bassa modenese e di Bibbiano.

Messaggio che, probabilmente, oggi è un po’ più complesso da far passare: in merito, ad esempio, articoli come quello di Gabriele Niola su Wired evidenziano (un po’ troppo genericamente) le brutture del film, sostenendo che Avati imposti una narrazione con spirito poco convito (“non è la narrazione in sé il problema, è che Pupi Avati non crede minimamente a quel che sta raccontando, non ne ha nessuna paura e si vede“). Semmai pero’ è il contrario, dato che la paura c’è eccome, si avverte fin dalla terrificante scena iniziale – che ha l’unico difetto di impostare una tensione di fondo che poi, con l’andatura di un film fatto di allusioni e non-detto, finisce per decadere e deludere un po’. La narrazione, se ci fosse bisogno di scriverlo, è parte del consolidato gioco di rielaborazioni del cinema di genere, ed è ben nota – almeno per chi ricorda La casa dalle finestre che ridono: film di culto che è stato pluri-citato a riguardo de Il signor diavolo, a partire dagli attori coinvolti (Lino Capolicchio), a finire all’ambientazione rurale della storia.

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Uno scenario filmico tutto italiano, quindi, che, fermo restando il rispettabile ed originale “gotico padano” alla base, riesce ad essere innovativo senza essere nuovo (e in fondo non è questo il problema), e risale a vari thriller ed horror del passato. Citerei almeno Il demonio di Rondi e Non si sevizia un paperino di Fulci, che erano entrambi a sfondo fanatico-religioso ed erano ambientati, come unica differenza, nella provincia del sud Italia. Due film a cui, al netto della carriera del regista questa nuova opera di Avati deve abbastanza (andrebbero ricordati, dello stesso regista, L’arcano incantatoreZeder, che condivide con Il signor diavolo l’ossessione macabra per la rianimazione dei corpi di chi amiamo: nello specifico, l’amico dell’inquietante e riuscitissimo personaggio interpretato da Filippo Franchini).

In un’intervista recente, poi, Avati dichiara che “potenzialmente il bene ed il male, nella parte iniziale della vita, convivono“: chiave di lettura interessante, e meno banale di ciò che sembra. Essa si riconduce ad un doppio filo narrativo che seguono quasi tutti i personaggi. Da un lato, infatti, troviamo l’apparenza rispettabile delle istituzioni e delle autorità, dall’altra vi sono pochi personaggi borderline (il ragazzo deforme e la madre) che sembrano minacciarne, senza riuscirci pienamente, l’ipocrita rispettabilità. Mancano le caratterizzazioni forti dei personaggi, la teatralità macabra di personaggi indimenticabili come la “maciàra” fulciana ed il prete ambiguo ed antagonista del personaggio di Capolicchio, certo, ma in fondo sono passati più di quarant’anni. Come da copione, poi, il personaggio di Momentè si troverà ad essere travolto dalla ricerca della verità, trovandosi a vivere l’orrore sulla propria pelle sulla falsariga dei protagonisti argentiani impegnati nella ricerca di una verità che, piaccia o meno, potrebbe portarli alla morte. L’horror-thriller come ricerca della verità, pertanto, e svelamento progressivo degli altarini al pubblico, il quale assiste allo stesso senza mai provare un vero e proprio senza di liberazione.

La spiegazione del finale, del resto, è piuttosto chiara (ed è diversa, ci ricorda Avati, da quella del libro) e lascia un senso di vuoto e di smarrimento, per quanto sarebbe stato lecito aspettarsi qualcosa in più: l’orrore di Avati è misurato, forse frenato (le scene davvero spaventose sono poche, ma riuscite) e questo per via delle varie difficoltà a trovare un produttore. Il tutto, ancora una volta, verso un pubblico che capirà solo in parte, e che vuole soltanto commedie, come sintetizzato da una celebre dichiarazione di Franco Nero qualche anno fa.

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