Halloween II: quando R. Rosenthal continuò la saga di J. Carpenter
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Sulle note di Mr. Sandman dei Chordettes, si apre il secondo capitolo della saga di Halloween: siamo direttamente nella casa in cui Laurie Strode (la babysitter protagonista, ovvero Jamie Lee Curtis) deve fronteggiare l’inquietante maschera di uno dei villain più famosi del cinema.

In breve. Un buon horror slasher, non indispensabile in senso stretto (del resto quale film lo è?) quanto divertente per il suo genere, ben diretto quanto ben ritmato. Sceneggiato da Carpenter e Hill, diretto da Rosenthal.

Noto con due titoli (Halloween II e Il signore della morte in Italia, da non confondersi quindi con Halloween II girato da Rob Zombi nel 2009), è stata pubblicato anche un romanzo tratto dalla sceneggiatura (a cura di Dannis Etchinson), all’epoca dell’uscita best seller, nel quale ogni capitolo era introdotto da un fotogramma in bianco e nero tratto dal film. Esiste una versione ufficiale voluta dal regista ed una tagliata, a quanto pare, nota come “The Producer’s Cut” (che probabilmente non vedrà mai nessuno, se non con l’inganno).

Il film riparte dalle ultime sequenze del primo capitolo, il mitologico Halloween di John Carpenter: come in ogni sequel che si rispetti, l’occasione è prima di tutto ghiotta per approfondire argomenti rimasti in sospeso, non detti o appena accennati, nel capitolo precedente. Questo da un lato è senza dubbio accattivante, ma dall’altro relega la visione ad un pubblico disposto ad accollarsi un ennesimo seguito di quella che stava per diventare la saga di Michael Myers. Non a tutti piacque l’idea, ma nonostante ciò la saga è andata avanti per anni, da qui in poi.

Nella valutazione, ovviamente, rientra a pieno titolo il fatto che la sceneggiatura sia di John Carpenter, che pero’ non ha diretto la pellicola – lasciando l’incarico al poco noto Rick Rosenthal, al suo esordio registico in cui se la cava comunque egregiamente. Il risultato finale sembra comunque apprezzabile, sia visivamente che come ritmo e caratterizzazione dei personaggi (molti dei quali fin troppo stereotipati: c’è pure il poliziotto custode dell’ospedale rigorosamente obeso, perennemente addormentato e destinato by default ad una fine atroce). Nel body count, cioè la conta del numero di vittime, ne abbiamo soltanto 9 (10 se si considera la vittima dell’incidente stradale).

Ma che cos’è? Uno scherzo?

È tutta la notte che ci spaventano da morire.

…lei non sa cos’è la morte!

Lo stile di regia di Rosenthal merita comunque una citazione di merito, anche solo per come è riuscito a caratterizzare il personaggio di Myers: un’ombra che attacca soltanto quando la prossima vittima è da sola, vittima della stessa solitudine che lo aveva tormentato nell’infanzia, mentre rimane perennemente in secondo piano, spesso fuori fuoco, quando i personaggi in scena sono più di uno. Poi non è il miglior film mai girato sull’argomento – e probabilmente non era nemmeno interessato a diventarlo: i richiami ad un’altra pellicola altrettanto sanguinolenta, comunque, non mancano (il misconosciuto e validissimo Silent night, deadly night), e ne rimane comunque un buon b-movie, non plagiato nè superficiale nel suo scorrere. Nel computo, la figura di Laurie Strode rimane paradossalmente quasi in ombra, perchè il vero protagonista sembra essere il numero di delitti commessi da Myers.

La maschera di Michael è sempre la stessa (e anche qui, non dirà una sola parola), per quanto appaia diversa nel film per via dell’usura e del fatto di essere stata custodita con poca cura, a quanto pare, dopo aver finito il film precedente. L’attore, peraltro, pare abbia venduto tutto l’armamentario di cui era dotato nel film (la maschera, il coltello che ruba in casa di un’anziana signora, gli stivali, il bisturi e la tuta al proprietario di una casa in Ohio, considerata stregata) nel 2003. Da ricordare inoltre che alcune delle scene più gore siano state girate da Carpenter, che le fece includere nella versione finale film – nonostante le obiezioni del regista, che avrebbe voluto un film più “sussurrato”, un po’ come il precedente. L’idea di ambientare quasi tutto il clou del film all’interno di un ospedale, poi, sembra essere stata una buona idea: i corridoi bianchi diventano uno scenario perfetto per i delitti del mostro, che si muove implacabile al suo interno come un’ombra minacciosa. Non mancano dettagli da film da drive in, in questo: gli infermieri un po’ casinisti, la polizia vagamente beota, l’infermiera ovviamente sexy (una conturbante e poco nota Pamela Susan Shoop, destinata ad una fine che omaggia spudoratamente Profondo Rosso e nota anche per L’impero delle termiti giganti. Su quella sequenza vagamente hot, peraltro, ci furono difficoltà nel girarla da parte dell’attrice, probabilmente per via delle sequenze di nudo, e per via dell’acqua non troppo pulita per cui ebbe anche un’infezione all’orecchio). Ancora più suggestiva, come location, se si pensa che nel frattempo è stato abbattuto e non esiste più, oggi.

Rimangono fermi e imprescindibili i capisaldi del primo capitolo: un assassino apparentemente invulnerabile, mosso da un desiderio di uccidere che compensa un dolore represso nell’infanzia (probabilmente un dramma dovuto all’isolamento), tanto che la spiegazione del dottor Loomis è piuttosto esplicita a riguardo, quanto difficile da apprezzare senza leggere qualche trattato di psicologia o psichiatria. Il punto di domanda, a questo punto, è quanto il pubblico riesca davvero ad apprezzare un film genere oggi, nell’esasperazione del cinema usa-e-getta e nell’idea che senza effetti speciali clamorosi e battute da bar americano nessuna opera sia davvero “divertente”.

Eppure Il signore della morte lo è: nella sua scarsa essenzialità, se vogliamo, ma lo è a tutti gli effetti.

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