Non aprite quella porta – Parte 2: quando Hooper reinventa Leatherface
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Sono passati molti anni dagli eventi del primo film, ma la famiglia di Leatherface sembra essere ancora in circolazione: ad affrontarli saranno la DJ di una radio locale ed uno sceriffo in cerca di vendette personali.

In breve. Piaccia o meno è il seguito (ufficiale) di Non aprite quella porta: in breve, poco o nulla è rimasto dell’originale, e ciò che era orrore da documentario diventa horror grindhouse. Difficile dare un giudizio certo, anche se fan e critica propendono per la stroncatura.

Il caso è più unico che raro: un regista di uno dei più famosi film del genere, amato da generazioni e difficilmente criticabile sotto qualsiasi punto di vista, smantella pezzo per pezzo la sua storia e la prosegue assumendosi, nel farlo, il rischio di rendere la saga un polpettone gore anonimo e incolore. A ben vedere (e a confronti di tanti altri squallidi epigoni) questo film ha anche dei pregi, che certo usciranno fuori soltanto negli ultimi tre quarti d’ora – momento in cui la storia riprende ritmo e si ravviva – e che sono tipici di un b-movie pieno di splatter, con qualche buon momento di tensione e tutto sommato gradevole.

Criticare Non aprite quella porta – Parte 2 fa parte dello “sport nazionale” degli amanti dell’horror per una varietà di motivi: alla base c’è un problema di mancata continuity. L’introduzione fa infatti presagire un seguito sulla totale falsariga del capolavoro precedente, ma non è così: Hooper non ha mai amato ripetersi, ed opta per un cambio totale di registro. Molti aspetti del film, che risaltano più nella seconda parte del film che nell’interminabile prima, sembrano voler ricalcare la violenza estetizzante ed i deliri quasi cartoonistici di film come La casa o L’armata delle tenebre. E in effetti è facile pensare ai due protagonisti (sceriffo e DJ) come ad un calco di Ash ne La casa 2, se non fosse che questo film è uscito prima di quest’ultimo (e comunque dopo La casa, da cui potrebbe aver preso spunto). È chiaro, a questo punto, che pur non trattandosi di un capolavoro (difficilmente se ne trovano, nell’ambito slasher-splatter in assoluto) molta della fama negativa di Non aprite quella porta – Parte 2 è quantomeno ingiustificata.

Il film soffre comunque per una sceneggiatura non troppo curata – per dire, si capiscono più i mugugni di Leatherface che certe frasi pronunciate da Drayton Sawyer – c’è qualche doppio senso che probabilmente si perde nella traduzione, c’è la scelta (opinabilissima, della serie come vi viene in mente) di chiamare Leatherface “Faccia di pelle” nel doppiaggio italiano – che sarebbe come chiamare Incubo Freddy Krueger o Michele Miei Michael Myers – la stessa scelta della protagonista convince come scream queen più alla fine che sulle prime. Nulla da dire sul ruolo assegnato a Dannis Hopper, per inciso, semplicemente perfetto – e calato alla grande – nella parte del “giustiziere”.

Per il resto, è un horror splatter non eccelso ma onesto, che richiede la conoscenza del film precedente dato che cerca di allestire evocazioni più o meno sensate della stessa (la cena col nonno ultra-centenario, i cannibali, la consueta porta scorrevole che Leatherface cerca di sfondare, le seghe elettriche che saltano fuori come funghi), senza cercare di ricopiare un capolavoro, e provando a dare un seguito sensato all’incubo della famiglia cannibale. Il film prosegue la storia di Leatherface e del fratello-padre Drayton Sawyer, “il Cuoco” del primo episodio, che ha trovato lavoro come cuoco di una griglieria ambulante, e non è difficile immaginare a chi appartenga la carne cucinata. Nel frattempo la DJ di una radio locale entra casualmente in contatto coi maniaci, e si candida da subito a scream queen della pellicola. La scelta di utilizzare un registro da horror comico / black comedy è criticabile, in effetti, giusto nella soppressione di quel feeling sinistro e documentaristico che caratterizzava Non aprite quella porta. A conti fatti, Hooper sembra anche voler ironizzare sul fenomeno di culto creatosi dall’uscita del film.

Il regista, abile come pochi a costruire storie terrorizzanti e ad indagare i meandri dell’incubo e dell’irrazionale (come prova dovrebbero bastare la visione 1) dell’originale del 1974, 2) di Quel motel vicino alla palude e 3) dell’ottimo Il tunnel dell’orrore), sembra meno a proprio agio con la black comedy, anche perchè molte delle cose che dovrebbero far sorridere non si capiscono, o passano indifferenti. C’è il lato positivo di una storia semplice ma ben diretta, di villain grotteschi e almeno in parte azzeccati, soprattutto in un crescendo sul finale capace di omaggiare, negli ultimi fotogrammi addirittura il controverso Le colline hanno gli occhi.

Non è, insomma – come alcuni sono portati a pensare – come se Deodato avesse auto-parodiato il suo Cannibal Holocaust, o come se Wes Craven avesse girato una versione più light di Nightmare facendo passare l’idea rassicurante di dire al pubblico “si scherza, è un film ed il sangue era finto“. Forse Hooper fa in parte questo “gioco”, ma a metà storia sembra ripensarci e da’ all’intreccio la sterzata decisiva: del resto, stiamo pur sempre della storia di uno sceriffo che vuole vendicare il fratello ucciso dalla famiglia di Leatherface (non c’è novità), e che nel farlo coinvolge la DJ di una radio locale che “guarda caso” si troverà a registrare la telefonata di una delle vittime (c’è un po’ di prevedibilità).

Prendere o lasciare: se volete trascorrere un’ora e mezza di horror ottantiano “leggero”, o scoprire da dove abbia preso ispirazione un film come La casa dei 1000 corpi (da qui Rob Zombi ha preso, direi, a piene mani) Non aprite quella porta – Parte 2 potrebbe fare al caso vostro. Il resto del lavoro di Hooper mi sembra soggetto a valutazioni abbastanza soggettive per cui, visione alla mano – e trattandosi di intrattenimento con poche o nessuna pretesa – ognuno potrà farsi l’idea che preferisce. Rimane la nota stilistica sullo stile recitativo da grindhouse puro, sulle ambientazioni texane e sulle efferatezze mostrate come modello per i posteri.

Nota di merito di cui si è parlato poco, infine, la colonna sonora del film, che è un discreto mix di gothic e rock new wave che riesce a non passare inosservato.

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