La furia iconoclasta del politicamente corretto (anche nel cinema)

Ormai tutti parlano di politicamente corretto, si tratta di argomenti che finiscono spesso su Google Trends e ciò avviene in circostanze quantomeno bizzarre, a mio modo di vedere. Da faro guida della sinistra storica, infatti, l’evocazione del politicamente corretto è finita per mutare geneticamente, tanto da diventare mero argomento di polemiche sterili (prevalentemente da social, e quasi al pari di cose tipo “dittatura sanitaria“), che portano la discussione tipicamente “da nessuna parte” e, in qualche modo, se ne vantano pure.

Alla base della difesa del politicamente corretto, in molti casi, vi è spesso un atteggiamento iconoclasta, di anelata distruzione di ciò in cui una società moderna non potrebbe più sopportare, e questo naturalmente si è tradotto in più casi nel chiedere il ban di film politicamente come niente-popo-dimeno-che… Grease. Grease! Avessero detto Wes Craven avrei forse capito di più, spero che nessuno dica mai una cosa del genere e vale la pena, a questo punto, indagare sulla questione in modo approfondito. Per quale motivo la difesa del politicamente corretto deve per forza di cosa passare per la distruzione di qualcosa, nello specifico di un qualsiasi film che ha come unica colpa il voler porre una questione in modo non convenzionale?

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Cinema e “correttezza”: un binomio difficile da sempre

Ed è chiaro che in questo contesto il cinema non poteva esimersi da quella medesima furia distruttrice, che – intendiamoci da subito – a volte è addirittura sana, ripensando ad esempio a Nietzsche ed al suo pluri-citato Chi deve essere un creatore non fa che distruggere. Si può distruggere per ricostruire, insomma, ed è anche normale che certe simbologie e modi di pensare cedano il passo ai tempi che corrono.

Il problema, tuttavia, è che dietro la furia iconoclasta del XXI secolo, quella che ha chiesto la censura a vita di Morituris o (per citare un esempio più popolare) ha fatto abbattere la statua di Colombo ed imbrattare quella di Montanelli, non è perfettamente chiaro cosa ci sia dietro a livello di implicazioni. Non sono così sicuro, insomma, che sia un distruggere per ricostruire, ma che piuttosto sia una distruggere per “poi si vedrà“, o peggio ancora “non ci poniamo neanche il problema del poi“.

Politicamente corretto è in genere un atteggiamento legato, per definizione, ad una condotta o comportamento improntato al pieno rispetto dell’identità politica, etnica, religiosa, sessuale, sociale, ecc. di altri soggetti. Di per sè, in effetti, per una persona che si ispiri a valori politici progressisti dovrebbe essere sostanzialmente normale, ma soprattutto non può nè dovrebbe diventare un manganello da ostentare e usare a sproposito contro chi non la pensa come noi.

Che cos’è davvero il politicamente corretto

Di per sè sarebbe un concetto sacro ed inviolabile per chiunque, a meno che uno non sia di idee particolarmente radicali. Di fatto, è un qualcosa che finisce paradossalmente per farsi odiare da chiunque o quasi, anzi è spesso un parafulmine contro il quale prendersela a morte nelle discussioni più spinose, perchè questi buonismi, signora mia, ci hanno stufato davvero, visto che siamo brave persone che pagano le tasse (oddio, quasi sempre).

Ormai non abbiamo idea di cosa sia il politicamente corretto, ad oggi, ma siamo anche dell’idea di doverlo difendere ma (arrivo al punto che mi sta a cuore), al tempo stesso, non può nè deve ridursi ad una questione di mero principio lava-coscienza, come purtroppo è diventato per alcuni.

Il cinema, la censura e il politically correct

Sul discorso generale sul politically correct, senza imbrigliarci in discorsi che rischierebbero di consumarsi su se stessi senza dire nulla – questo coerentemente coi tempi di post-verità che viviamo, nostro malgrado, per i quali ognuno ha la propria verità e se osi mettere in discussione quella altrui sei comunque un povero scemo – lo stesso concetto paritario alla sua base ha finito per assumere spesso una valenza differente da qualche tempo fa: è sempre stato un mantra intoccabile, il politicamente corretto, e guai a chi osava violarlo. Ad oggi ha finito per essere banalizzato con concetti tipo “buonismo”, che poi è una versione da bambini educati di certi immarcescibili modi di dire sull’amore per l’analità o sui culi propri ed altrui.

Il cinema, ad esempio, ha violato il politicamente corretto il più occasioni, spesso con intenzioni differenti da quelle che gli venivano attribuite dalla critica: coinvolgendo non solo cineasti effettivamente ambigui (e ce ne sono tanti, anche se poi è difficile anche citarli: non sia mai che lamentino la mancanza di politicamente corretto da parte nostra…) ma anche altri intelligentemente provocatori, forse a volte un po’ troppo esoterici e (quasi sempre, direi) obiettivamente innocenti. Certe letture della critica sono sempre state un po’ naive, un po’ superficiali o agghiaccianti: se un cineasta mostra violenza, per intenderci, per certe critica è automaticamente a favore della violenza – e per favore non ditelo a Kubrick, Carpenter, Romero, Cronenberg e compagnia.

La lotta sterile per politically correct

C’è una lotta lecita per il politicamente corretto, ma in questa fase non la metteremo in discussione: vorrei focalizzarmi su quella di facciata, che di per sè sarebbe anche roba di poco conto se non fosse che, in molti casi, arriva ad evocare la censura delle opere “sgradite”, il che a mio modo di vedere è semplicemente grottesco.

Penso ad esempio a La città delle donne di Fellini, boicottato dalle stesse femministe che avevano partecipato al lavoro, che rimane un film di cui, se oggi si accorgessero nuovamente della sua esistenza, sarebbe un delirio di polemiche e, anche lì, osanna della censura sulla falsariga di “quando c’era lui” (“lui” ovviamente è un censore qualsiasi, ed è in parte incredibile come molta gente dal pensiero progressista evochi la censura in queste circostanze). Penso a Film d’amore e d’anarchia, un film che mette in discussione il martirio a scopo politico e che, non mi meraviglierebbe per l’epoca, potrebbe essere teoricamente tacciato di conservatorismo o di non fare gli interessi da ‘a sinistra che tutti amano ma poi, almeno in Italia, nessuno vota. Si veda anche Il maestro e margherita, altro film epocale sull’iconoclastia ed il conformismo anche dove non ce lo aspetteremmo, che è stato effettivamente accusato di scarso politically correct.

Non sottovalutiamo la catarsi

Il punto è che se da un lato certi tabù non possono essere violati come se nulla fosse, ed in questo ci guardiamo bene dall’assecondare certo pubblico snobistico e/o egoista, il quale accetta di vedere sullo schermo qualsiasi cosa per il gusto dell’estrema fiction (esempio classico: amanti di film snuff o presunti tali), resta anche vero che è una questione di linguaggio: se certi film non avessero violato certi tabù non avremmo forse neanche assistito – voglio essere ottimista per una volta – all’evoluzione della società come la conosciamo oggi.

Aver visto certi film anche “sgradevoli”, di fatto, se da un lato ha suscitato reazioni scomposte ad esempio in nome della possibilità di emulazione da parte dei “gggiovani“, ha fatto anche in modo di ottenere un effetto catartico su tante altre persone, tant’è che nessuno cita mai la catarsi a proposito di certo cinema e anzi, sembra quasi che la parola sia stata dimenticata dai più.

Iconoclasta: Critico, spregiudicato e irriverente, di principi e credenze comuni; spinto o motivato da un’indiscriminata polemica distruttiva.

Catarsi (intesa come redenzione o purificazione) che ha un molteplice significato: nell’antica Grecia era considerato un vero e proprio rito magico di purificazione dell’anima, inteso a mondare il corpo e l’anima da ogni contaminazione. Nella psicologia corrisponde ad un processo di sostanziale liberazione da esperienze drammatiche o conflittuali, derivanti dall’individuazione delle autentiche responsabilità e conseguente rimozione del senso di colpa. Della serie: andare oltre il senso di colpa che attanaglia il genere umano, di lovecraftiana memoria, e seguire un po’ il processo di accettazione e rinascita dello sceriffo Ed Tom Bell in Non è un paese per vecchi. La sensazione generale è che nei discorsi legati al politicamente corretto si tenda a difendere il “fortino” a prescindere, e (quantomeno in relazione ad opere audio-visive) la catarsi la gente non sappia nemmeno cosa diavolo sia (e non voglia neanche saperlo).

Politicamente corretto e cinema anni 70

Sono stati giusto gli anni 70 a produrre un gran numero di film politically uncorrect, in effetti, e vale la pena soffermarsi su qualche esempio a riguardo.

Gran parte del poliziottesco anni ’70, ad esempio, era accusato di conservatorismo, se non addirittura di fascismo: contestualizzando all’epoca dei figli dei fiori e delle comuni peace & love, forse, c’era da aspettarsi che piacessero più film modello Il serpente di fuoco che non Milano odia. Ma quelle critiche al genere risultano francamente esagerate, lette oggi, anche perchè la realtà ci ha insegnato cosa significa davvero virare verso lidi di repressione e conservatorismo (si vedano le mattanze del G8 nel 2001, o certa gestione semplicistica e sbrigativa delle vicende di ordine pubblico legate al Covid-19), tutte cose che nemmeno il regista più reazionario e amante del sadismo avrebbe mai immaginato.

Senza dimenticare che poi, di fatto, tutto quel cinema poliziottesco faceva riferimento a situazioni rigorosamente romanzate, che si ispiravano al cinema d’azione USA (che certo non era proprio di sinistra) e che facevano sensazione soprattutto perchè erano vicine a noi, e non c’era alcun Clint Eastwood o nessun Jack, fuck o go-go-go che ne denotassero chiaramente la fiction. In due parole: quei film facevano paura, continuano a farne tuttora ed è forse da questo che derivavano gran parte delle accuse. Su questo non c’è considerazione consolatoria che possa reggere in alcun modo evocarne la censura, che è un modo sbrigativo (anche qui) per le autorità per risolvere questioni spinose, come la realtà di certi stati ci ha insegnato.

Non si sevizia un politicamente corretto

Avrei potuto citare molti, moltissimi film ed analizzarne le scene cardine accusate di “scarso politicamente corretto”: ne sarebbe venuto fuori un ebook, a quel punto, per cui ho preferito concentrarmi su quella della “maciara” pestata dai paesani in Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci. Di per sè la scena è tremenda, impressionante e profondamente orrorifica: Florinda Bolkan interpreta la maga-veggente del paese, usata come capro espiatorio per via della misteriosa scomparsa di alcuni bambini (per i quali si adombra la possibilità di un serial killer pedofilo). Da un certo punto di vista si potrebbe obiettare l’esistenza di una rappresentazione realistica di una violenza di gruppo su una donna, cosa che peraltro certe cronache ci hanno purtroppo raccontato.

Ma qui il punto è duplice, e – anche se dovrebbe essere scontato – vale la pena ricordarlo per punti:

  1. giudicare dalla singola scena senza aver visto il film è una cattiva idea in genere, perchè ci priva del contesto. Il contesto è fondamentale, e per inquadrare bene il discorso pensiamo ad un episodio deprecabile in un telegiornale, ad esempio: un conto è vederlo in un TG commentato da un giornalista, decisamente un altro è trovare il filmato in un sito underground senza commento e con l’audio in presa diretta.
  2. non è difficile identificare i paesani picchiatori come l’elemento malvagio della storia, visto che sono quasi sempre sospettosi e a caccia di un colpevole senza processo; in una parola, è il populismo di provincia il “cattivo” della vicenda, ed è questo che apre a notevoli letture sulla falsariga, ad esempio, di Cane di paglia;
  3. l’abuso di politicamente corretto è “perdonabile”, anche secondo i canoni oltranzisti dell’iconoclastia classica, proprio perchè il messaggio di fondo si fonda sul punto precedente;
  4. il fatto che Fulci abbia costruito la sequenza in questi termini deve essere contestualizzato alla storia ed alle sensazioni catartiche, per l’appunto, che vuole suscitare nel pubblico (esempio: pensare a quanto sia tremenda la violenza, soprattutto se rappresentata in modo realistico come avviene qui);
  5. la presenza di Quei giorni assieme a te della Vanoni costruire un chiaro-scuro in cui la violenza delle immagini finisce per da contraltare alla dolcezza della musica e delle parole (tanto più che la canzone parla di un’amante abbandonata per via dell’egoismo del partner: cosa che vediamo anche nel film, quando la donna chiede aiuto e le macchine, pur vedendola, passano oltre nell’indifferenzac)
  6. il fatto che un film mostri una cosa del genere non vuol dire certamente, a questo punto, che inneggi ad una situazione del genere, perchè altrimenti varrebbe anche per i telegiornali che mostrano sequenze al limite dello snuff – all’ora di pranzo, peraltro.

 

Bisogna anche ricordare che in molti casi le polemiche sul sessismo, ad esempio, nascono da contesti abbastanza anomali, quasi costruiti a tavolino: la polemica su Grease di qualche tempo fa, ad esempio, nasceva letteralmente da un tweet di uno/una sconosciuto/a che ha fatto “diventare notizia”, se ricordo bene, il Daily Mirror. La realtà delle testate web nell’era della post verità è questa: bisogna scrivere, sempre e comunque, e lo faremo, anche a costo di inventare notizie di sana pianta. Ricordiamocelo, la prossima volta che esce fuori una notizia del genere, magari. Il problema del sessismo ovviamente c’è, ma portarlo avanti per via di un singolo film – evocandone la distruzione o la censura – è, di fatto, un modo molto scadente per affrontare il problema (e serve, peraltro, solo ad ingrassare le casse dei siti che su queste notizie ci campano, in qualche modo).

E se vale il discorso che abbiamo appena affrontato, a questo punto, possiamo abolire il senso di colpa e l’evocazione della distruzione dell’opera anche per la pluri-citata scena di Amore mio, aiutami di Alberto Sordi, anche qui oggetto di polemiche sempre sulla stessa instancabile falsariga.

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