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Se ti senti stressato dal lavoro, “Un giorno di ordinaria follia” è il film perfetto per te

Los Angeles: un impiegato mite quanto stressato dalla giungla urbana inizia ad andare in giro per la città, armato di tutto punto e disposto a fare qualsiasi cosa per rivedere la figlia.

In breve. Un cult fondamentale per l’epoca, soprattutto per la rielaborazione dello stereotipo del poliziotto “raw & wild” e per la presentazione di un villain che lascia interdetto il pubblico, sulla falsariga di una domanda cruciale: “sono io il cattivo?“.

Guardare oggi Un giorno di ordinaria follia (Falling down) di Joel Schumacher oggi, 28 anni dopo la sua uscita, può provocare un effetto senza dubbio straniante: la figura del protagonista (emblematicamente dal nome D-Fens, che è anche la targa della sua auto nonchè gioco di parole su “defense”, ovvero difesa) è l’immagine dell’impiegato medio americano, nel suo caso subissato da regole e imposizioni che non riesce ad accettare e che, come se non bastasse, gli hanno fatto perdere l’affidamento della figlia. Il suo viaggio ricorda un po’ il girovagare notturno dei Warriors nel cult di Walter Hill, visto che si trova catapultato in un ambiente metropolitano fatto di ostilità, razzismo e diffidenza.

Schumacher propone, o sembra proporre, una sostanziale critica sociale pensata per far riflettere lo spettatore, che va dal problema della delinquenza per strada passando per intolleranza, mancanza di empatia col prossimo e affidamento dei figli dopo un divorzio. Per quanto il personaggio di D-Fens possa risultare simpatico al pubblico (una delle interpretazioni preferite di Michael Douglas, a suo stesso dire), in grado di discernere con grande lucidità tra chi meriti di morire e chi, ad esempio, solo di essere terrorizzato da lui, a ben vedere è comunque una figura ambigua: soprattutto questo emerge dal racconto della ex moglie, quando viene interrogata dalla polizia dopo le prime chiamate ricevute. Da lì emerge una figura di stalker possessivo, persecutorio e dal carattere imprevedibile, che pero’ la donna tende (come spesso accade nei casi di violenza domestica) a schermare, almeno parzialmente. E così vedremo il protagonista andare verso casa della sua ex famiglia a piedi, con nient’altro se non una valigetta zeppa di armi e, naturalmente, anche di un regalo alla figlioletta: l’effetto è quasi da commedia grottesca, ma il sottotesto rimane serio.

Tra i difetti del film, probabilmente, ci son proprio alcune scene d’azione che dovrebbero risultare estremamente adrenaliniche: soprattutto quella dell’incontro tra il protagonista ed il negoziante neonazista di armi, che – come spesso accade nel film – viene risolta forse in modo troppo sbrigativo, col risultato di risultare poco credibile. È vero che D-Fense non farebbe del male ad una mosca e che sta scatenando la propria rabbia contro un’intera società, ma il fatto che continui ad essere goffo e che riesca lo stesso a districarsi in situazioni complicate neanche fosse Rambo fa riflettere: non tanto sull’eventuale errore registico quanto sul fatto che, alla fine, il messaggio di fondo è molto preciso.

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Stando allo sceneggiatore Ebbe Roe Smith, infatti, il sottotesto è chiaro: D-Fens rappresenta la vecchia, burbera ed arcaica classe dirigente americana, che dovrebbe solo andarsene in pensione. Per certi versi il suo personaggio, pericoloso quanto bizzarro ed imprevedibile nei comportamenti, rappresenta esattamente la città in cui è ambientata la storia, Los Angeles. Durante le riprese, peraltro, la troupe fu costretta a interrompere ed allungare i tempi di produzione dato che, per un curioso caso, stavano avendo luogo le rivolte di Los Angeles (causate dal pestaggio immotivato, da parte del LAPD, del tassista Rodney King, evento ripreso casualmente da un abitante del posto, e che provocò una rivolta in strada di diversi giorni, con vari morti e feriti, e finì per causare le dimissioni in blocco del dipartimento di polizia dell’epoca). Che Falling down sia un film dal valore enorme, del resto, è confermato da più aspetti visuali e qualitativi: ma soprattutto è assodato dalla rottura dello schema classico del poliziesco americano, quello modello Harold Callaghan, dato che il poliziotto buono è disposto ad aggirare le regole pur di fare giustizia ma ha perso, nella rilettura di Schumacher, il suo carattere più burbero, diventando un mite Prendergast, deriso dai colleghi per il fatto che non va mai in strada e costretto dalla moglie dispotica ad andarsene in pensione.

In questi termini non ci sono dubbi che il film si basi su due protagonisti non troppo dissimili: un impiegato colto, con un senso civico annegato nella rabbia e nella frustrazione quotidiana, contro un poliziotto dal volto fin troppo umano, che (con la sua mutazione improvvisa) finirà per essere la chiave di volta della storia. Il finale, poi, regala intensità ed amarezza: ma c’era da aspettarsi che fosse, come in effetti è, falsamente consolatorio e malinconico.

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