Sulmona: una coppia di anziani invita i figli, con le rispettive famiglie, per la cena di Natale. Al di là delle apparenze, i parenti si odiano profondamente, sono preda di rispettive psicosi e dovranno affrontare un pesante dilemma posto dai genitori.
Parenti Serpenti è la raffigurazione grottesca e pessimistica di tutti i difetti associati alla famiglia italiana, e le sue degenerazioni nel familismo, nella più profonda ipocrisia, nel pettegolezzo e nelle frasi fatte. A partire da una classica cena in famiglia, tra cameratismo e battute inopportune escono progressivamente fuori le magagne (ma anche le sofferenze) con annesse psicosi legate alla vita quotidiana, ma soprattutto le relazioni ambigue e poco sincere tra i familiari stessi.
Nonostante la caratterizzazione da teatro comico – soprattutto nonno Saverio, interpretato da un sublime Paolo Panelli, che lo caratterizza come un ex carabiniere dai modi bizzarri e qualche rotella probabilmente fuori posto – la vicenda di fondo è tragica: i genitori non vogliono finire i loro giorni chiusi in un ospizio, e – pur di non accollarsi la presenza dei genitori in casa – i figli arrivano ad architettare di ucciderli, facendolo sembrare un incidente. È lo scontro tra due sistemi di valori: quello spontaneo e semplicistico delle vecchia generazione contro quello trucido e calcolatore della nuova piccola borghesia.
Il crudele finale, peraltro, venne cambiato in corsa: inizialmente si pensava ad un avvelenamento per metanolo, peraltro realistico perchè fece parte di molte cronache dell’epoca (nel 1986, per inciso). Ma poi si optò per una, altrettanto credibile, esplosione finale, che ricalcò i numeri casi di cronaca (anche qui) di stufe a gas esplose, ad esempio perchè molto vecchie o non conformi alle normative di sicurezza.
Radicato nella realtà di provincia italiana, la medesima in cui sguazzarono felicemente per anni Villaggio, Banfi e Tognazzi, Monicelli costruisce nel 1992 un film che è anche satira politica, ma poi si rivela soprattutto satira sociale. La demolizione del comunismo nei paesi dell’ex Unione Sovietica, di fatto, viene fatta coincidere con la dissacrazione familiare: ed è la fine di qualsiasi punto di riferimento, persi in un’esistenza sempre più nichilista, gretta e consumistica.
Nello stile del regista bastano pochi attimi per pennellare squisiti e significativi quadretti: per esempio, mostrando un operaio (lo stuntman celebre per i film di Thomas Milian, Francesco Anniballi) che si lamenta della propria condizione lavorativa, e che viene sbeffeggiato da uno sprezzante avvocato (“ora che è caduto il muro di Berlino, chi vi difende più!“). Altro episodio clou avviene quando, nel mezzo di una discussione, esce fuori una rivista porno in cui compaiono, perfettamente riconoscibili, Michele e Gina, che si scoprono essere amanti. Quasi tutto il film è composto da analoghi episodi auto-conclusivi, che evidenziano grettezza e materialismo di quella generazione, orbitante tra aspiranti suicidi, pettegoli, infedeli e frustrati.
Uno dei personaggi è iscritto alla Democrazia Cristiana, predica di non averla mai votata eppure, stando alle voci degli altri parenti, deve a loro il proprio posto di lavoro a tempo indeterminato. Se i riferimenti alla caduta del muro di Berlino (1989) faranno sorridere i nostalgici, è incredibile come il film risulti ancora attuale e sostanzialmente scorrevole, con la voce del giovane figlio a commentare le vicende e le magagne.
Tratto dall’omonima piece teatrale (portata in scena da Lello Arena, in tempi recenti), Monicelli mostra un ritratto familiare tipico: da un lato l’apparente perbenismo e rispettabilità di tutti i personaggi, dall’altra l’egoismo, la malignità dei familiari che si pugnalano senza pietà alla prima occasione utile. Parenti serpenti, al netto della sua potenza caricaturale e satirica, è in realtà un film complesso, e non è scontato che venga accettato e compreso dal pubblico.
Stroncato a mani basse, ad esempio, dalla Commissione Nazionale Valutazione Film della CEI, come film “inaccettabile” e “negativo”; ne vennero riconosciuti gli intenti di critica sociale, ma ciò che viene considerato eccessivo (e che probabilmente è la critica che esprimerà gran parte del pubblico ancora oggi) è il cinismo assoluto con cui si pervene alla tragica conclusione della vicenda, senza considerare che – senza quel finale certamente estremo – il film avrebbe perso gran parte del suo peso, risultando fiacco e privo di mordente. E allora, a quel punto, prendere o lasciare – perchè sul fatto che si tratti di un film più unico che raro credo ci siano pochi dubbi: possiamo cogliere appieno uno dei saggi più originali di cinema italiano di quegli anni, oppure virare direttamente su produzioni nostrane più solari che, quasi esclusivamente, avrebbero occupato il territorio cinematografico fino ai giorni nostri.
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