Cabin Fever: Eli Roth delle origini sorprende e colpisce
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Cinque ragazzi si recano in un cottage per trascorrere una settimana di relax e divertimento, ma incrociano uno strano individuo apparentemente contagiato da una malattia sconosciuta…

In due parole. Un buon horror che avvince ed interessa, piuttosto easy nel suo concepimento ma, non per questo, privo di spunti interessanti, e piuttosto ben realizzato visivamente.

Scritto, diretto e prodotto da Eli Roth – praticamente al suo esordio con un lungometraggio – si ispira ad un’esperienza avuta dal regista durante un viaggio in Islanda, nel quale soffrì di un’infezione alla pelle: ed è proprio una misteriosa malattia, del tutto simile ad una fascite necrotizzante, a scatenare il panico all’interno del cottage. Per quanto Cabin Fever, in effetti, parta sotto i peggiori auspici – i primi dieci minuti di Chevrolet, tempeste ormonali e universitari vaporosi sembrano voler dichiarare che tutti questi horror sono necessariamente basati su belle fanciulle da college, studenti fattoni e hillbilly aggressivi ed ignoranti – si sviluppa in una trama non troppo elaborata che pero’, ad essere onesti, risulta abbastanza convincente e piacevole. La qualità delle riprese è buona, anche se all’inizio il tocco vagamente amatoriale si fa sentire per quanto poi la sensazione cali nel seguito. Per accorgersi che si tratta di un film sottovalutato, del resto, basta pensare al ritmo della trama, che non vive un solo momento di calo, oppure alla curiosa citazione tratta daLa notte dei morti viventi” (impossibile da raccontare senza fare spoiler) contenuta nell’ultima parte della pellicola: è l’autentico punto di svolta, che lancia un messaggio profondamente nichilista al pubblico. Forse anche per questo Eli Roth, che nel film fa la sua brava comparsata con la sua parvenza da campeggiatore sballone fan dei Machine Head, non poteva che essere massacrato dalla critica.

All’epoca non aveva ancora fatto nessuno dei film per cui viene abitualmente ricordato (Hostel ed Hostel 2), e qui ancora si diverte a giocare con la macchina da presa, abbandonandosi a qualche momento forzato di visionarietà (il coniglio in ospedale, il paesaggio virato di rosso) vagamente pretenzioso ma che, a mio avviso, è stato apprezzato dal David Lynch che ha addirittura prodotto la pellicola. Un po’ meno è stato l’amore di pubblico e critica per questo film, un indie horror di qualità visivamente buona che soffre, effettivamente, di qualche difetto legato – credo – all’eccessiva prevedibilità del suo sviluppo. Eppure non manca qualche sorpresa nel finale, ed anche le criticate – perchè fini a se stesse, evidentemente – scene più spinte e “di cassetta” sono programmaticamente intervallate da allucinazioni sanguinolente: è un horror, semplicemente. Niente male, quindi: per quanto manchino simbolismi degni di nota – la critica del regista, per larga parte spensierata e poco seriosa, sembra rivolta alla contradditorietà ed all’ipocrisia delle relazioni umane. Non è questo il punto, ad ogni modo: “Cabin Fever” ha lo scopo di fare l’horror “commerciale” mostrando il lato oscuro di nerd imbranati, ragazze disinibile e paesanotti marci nell’animo e, a mio avviso, ci riesce piuttosto bene. Altro discorso è che Roth non può davvero fare a meno, ad esempio, di mostrare le grazie di Cerina Vincent anche se non ce n’era affatto bisogno, ma in fondo anche questo, piaccia o meno, fa parte degli horror exploitativi, per cui azzarderei che “Cabin Fever” è ispiratissimo al cinema anni 70 ed è, come Napoleone Wilson, nato fuori tempo. Se fosse stato girato trenta anni prima probabilmente ne parlerebbero in modo diverso, e questo è tutto: questo Roth, forse, ancora non sa farsi capire, e produce un film di buon livello e non esente da difetti, prevalentemente poco credibile a livello di comportamento dei personaggi (forse un po’ troppo vittime delle circostanze), per quanto fino a un certo punto.

In definitiva questo lavoro per quanto fatto a pezzi un po’ da tutti, perchè tacciato di essere cioè che, in fondo, non è (un horror per teenager), riprende virtualmente per un orecchio i criticoni, quelli che sapranno apprezzare Roth solo da Hostel in poi. È globalmente un buon horror, strutturato in modo semplice ed essenziale e, a tratti, accattivante, per quanto (ripeto) non esente dai problemi tipici degli “indie“: qualche buco narrativo, qualche aspetto della trama poco evidente, ma anche un paio di chicche e citazioni decisamente efficaci. Si pensi ancora alla terrificante atmosfera che lentamente pervade la pellicola (e che vorrebbe evocare, nelle intenzioni, l’analoga diffidenza sviluppata tra i protagonisti de “La cosa“, un film che a confronto sta su un altro pianeta della galassia, ma serve solo a capirci) al misterioso “killer kit” chiuso in una scatoletta ed utilizzato dagli aggressivi hillbilly, e che nessuno vedrà mai. Per la cronaca di tratta di uno dei film a minor budget prodotto dalla Lion’s Gate, capace di incassare quasi 15 volte l’investimento necessario per realizzarlo (un milione e mezzo di dollari).  E se cercate un simbolo di questo horror, basti pensare alla birra di marca “Arrogant Bastard” con cui uno dei protagonisti andrà ad ubriacarsi nel bosco.

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