Death note: il manga di Tsugumi Ōba portato al cinema da Adam Wingard

Seattle: un liceale americano entra casualmente in possesso di un death note, un quaderno zeppo di complicate regole che fornisce il potere di far morire chiunque venga scritto su di esso. Sembrerebbe tutto semplice e lineare, dato che Light è di indole buona: ma non sarà così.

In breve. Qualsiasi amante dell’horror non può fare a meno di voler bene ad Adam Wingard (The ABCs of death 2, V/H/S, soprattutto lo splendido You’re next): sarebbe un buon film, se non fosse per qualche passaggio vago e qualche sentimentalismo di troppo.

Trasposizione wingardiana del famoso manga di Tsugumi Ōba, riportata alla realtà americana pur mantenendo alcuni elementi dell’originale. La storia è quella del giovane Light Turner (nomen omen) e della fidanzata Mia Sutton, venuti casualmente in possesso di un misterioso quaderno: utilizzandolo nel modo indicato, esso rende possibile l’evocazione di un demone (precisamente uno shinigami) in grado di provocare la morte a distanza di chiunque. Il film ha buon ritmo, e conferma il talento di un Wingard che si scontra consapevolmente con la marea di fan dell’opera originale, e riesce a dirigere il tutto con la giusta personalità.

A Wingard l’argomento fatalistico della storia è decisamente congeniale (chi ha visto altri suoi lavori dovrebbe saperlo); la maggioranza delle accuse di aver brutalmente “occidentalizzato” la storia (cosiddetto whitewashing) lasciano a mio avviso il tempo che trovano, in questo caso: Wingard è americano, non è Takashi MiikeNoboru Iguchi per cui ci sta, in prima istanza, che abbia affrontato l’argomento con il proprio, inconfondibile piglio.

Il death note è uno strumento di grandissimo potere, e quello che viene evidenziato dai personaggi è legato essenzialmente al farsi travolgere da esso. Sono ben dosati i momenti splatter della storia, mentre il clima ineluttabilità che si respira in essa, così come riesce a passare la lezione di fondo: “a volte devi scegliere il male minore“, e non sempre la distinzione tra buoni e cattivi è così netta come si vorrebbe. Quello che non funziona, semmai, è il piglio vagamente adolescenziale alla storia, che inizia nel migliore dei modi ma poi cede a qualche sentimentalismo di troppo e, soprattutto, diluisce troppo l’intreccio in una trama apprezzabile quanto vagamente confusa in alcuni passaggi.

Anche se non sono un amante dei manga mi sembra prevedibile (ed in certa misura comprensibile) che questa versione non sia stata apprezzata dai fan dell’originale, ma bisognerebbe porla in modo diverso: Death Note è dignitosamente ambientato a Seattle, è oscuro come richiesto, a tratti deprimente quanto vagamente caotico. Si tratta di un libero riadattamento di una storia ambientata originariamente in Giappone – anche se il piccolo sospetto che produzione e regia si siano voluto preservare da critiche aprioristicamente, ed in modo molto scaltro, rimane. Perdonabile, a suo modo.

La volontà registica, del resto, è chiaramente legata a questa precisa volontà, per cui tanto vale mettersi l’anima in pace: sa benissimo che Death note vive e vegeta in Giappone, ma si dichiara più volte incuriosito dal comprendere come gli americani avrebbero interpretato quegli stessi avvenimenti (“Death Note is such a Japanese thing. It became about what do these themes mean to modern day America, and how does that affect how we tell the story. What are the things that people chalk up to conspiracy theories? What kind of weird underground programs does the government have? How do those work in the world of Death Note?“). Questa probabilmente è la cosa che è più sfuggita alla maggioranza delle critiche e che, secondo me, va riportata per completezza, poichè fa parte delle intenzioni registiche, quelle da cui una critica seria non dovrebbe mai prescindere: per citare un esempio pratico, la presenza di Kira (l’essere misterioso ritenuto responsabile di oltre 400 morti commissionate mediante il Death note) viene interpretata da un predicatore americano come un false flag, proprio come avverrebbe realmente da parte degli innumerevoli complottisti che sarebbero portati a pensarlo. Questa sarebbe stata una rilettura azzardata in terra nipponica, ma non certamente negli Stati Uniti. Ambientandolo a “casa sua”, pertanto, lo ha reso esente da qualsiasi critica troppo “purista”, e ne ha iniettato nuova linfa, seppur non completamente senza difetti.

Wingard mischia la storia sovrannaturale con una sana dose di splatter ed un certo mood da noir puro, visto che il protagonista è figlio di un poliziotto, mostrando in modo brillante i conflitti tra i personaggi e le loro ambizioni. Abile a costruire un gioco di contrasti tra i protagonisti, contrasti che sono evidentemente i tratti portanti della storia originale ma che, all’atto pratico, rendono come una versione horror di un cine-fumetto recente: l’eroe che non viene capito, la storia d’amore tormentata, i rapporti familiari e la dimensione personale e globale miscelate per tutto il film.

Ne esce forse un ibrido, ma certamente apprezzabile e meritevole della sufficenza, per quanto alla fine della visione sembi mancare qualcosa a ricomporre il puzzle.

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