Il demonio: il film anni 60 di Brunello Rondi sulla possessione
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Lucania: Purificazione (nomen omen) è posseduta da un amore non corrisposto per un compaesano, già promesso da tempo ad un’altra donna. I suoi comportamenti troppo passionali la porteranno ad essere vista con diffidenza, fino a subire veri e propri abusi…

In breve. Un piccolo gioiello del cinema “demoniaco”, ricco di sfumature e dettagli antropologici, arrivato sugli schermi molto prima che il genere prendesse una piega monotematica (e spesso, purtroppo, alla pura ricerca di effettacci). Un film girato con piglio documentaristico, privo di eccessi ed apprezzabilissimo ancora oggi.

Il demonio è un film del 1963 atipico, oltre che in anticipo sui tempi: è uno dei primissimi esempi di cinema con riferimenti demoniaci espliciti, genere che prese definitivamente piede solo con “L’esorcista” e “The omen“. Vale la pena di ricordare, fin da subito, la notizia di cronaca a cui Friedkin sembra essersi ispirato: un quattordicenne che, si racconta, venne liberato dal demonio mediante un esorcismo (“a 14-year-old Mount Rainier boy has been freed by a Catholic priest of possession by the devil, Catholic sources reported yesterday” raccontava il Washington Post nel 1949).

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In questo lavoro di Rondi, ambientato nella Lucania più oscura e bigotta che si possa immaginare, emerge la bellezza sfregiata di Purificazione (Purì o Purif, in molte parti del film) contrapposta ai paesani rozzi, quale singolare simbolo dell’emarginazione del diverso. Una donna sola con la colpa di essere innamorata di un uomo già promesso, e di essere processata per questo dalla folla inferocita che mai, del resto, è entrata in empatia con lei.

A differenza di altri film incentrati sul sovrannaturale, sulla propaganda religiosa o sullo splatter in quanto tale, emerge piuttosto la medesima, potente, critica sociale che potremmo esprimere oggi leggendo l’articolo, un po’ ingenuo, appena citato. Articolo che spiega, tra l’altro, la mia generale diffidenza nei confronti di questo sottogenere di horror, che cade (spesso, non sempre per fortuna) nell’errore di sembrare veicolato a messaggi catechizzanti – per non dire peggio. Errore che, a mio avviso, “Il demonio” non commette affatto, visto che il regista è particolarmente attento a ciò che mostra.

Se questi presupposti ne fanno un film più “politico” (e più significativo) di altri banali e ripetitivi epigoni del genere, numerosi sono i riferimenti etnologici che lo rendono significativo. La cerimonia per scacciare la pioggia, ad esempio, oppure la celebrazione di un antico matrimonio o, più in generale, un curioso mix di religione e superstizione che il registra mostra nel dettaglio. Il lavoro si basa, del resto, sulle ricerche del professor De Martino dell’Università di Cagliari, e questo elemento di approfondimento vive in misura maggiore di qualsiasi altro horror, tanto da far pensare ad un vero e proprio documentario. Del resto ridurre Il demonio ad un mero lavoro di genere sarebbe pesantemente riduttivo, anche perchè manca la spettacolarizzazione dell’orrore tipica di questi casi.

L’unica sequenza potentemente demoniaca, del resto, è avanti di oltre dieci anni rispetto a ciò che vedremo in seguito: il tentativo di esorcismo in cui la protagonista cammina con la spider walk resa celebre da Friedkin (ma questo film esce molto prima de “L’esorcista”; parte della scena è questa), senza contare che successivamente inizia a parlare col prete in una lingua ignota. Paradossalmente, se vogliamo, il focus dell’azione è più concentrato sulla rappresentazione del contesto, sulle tradizioni vive, sui popolani dalla gogna facile o sulla famiglia ambigua della protagonista che, di fatto, sull’elemento demoniaco in sè. Il riferimento all’esorcismo (racchiuso in poche, essenziali ed efficacissime sequenze) non serve solo a far spaventare (cosa che, a mio avviso, il citatissimo lavoro di Friedkin prova a fare fino alla nausea): le pratiche anti-demoniache sono rappresentate quasi razionalmente, quale segno di una frustrazione latente e come forma di abusi fisici e mentali, per non parlare del fatto che la protagonista è una donna avvenente (i paesani che la demonizzano sono gli stessi che vorrebbero, spesso, abusare di lei). In uno scenario del genere, pertanto, chiedersi se Purificazione sia realmente posseduta, affetta da una malattia o solo esasperata diventa una questione quasi di poco conto.

Il saper miscelare più generi di Brunello Rondi (dramma, gotico, documentario) è forse il più consistente punto di forza del film. Possiamo solo immaginare l’ennesima violenza, l’ennesimo misfatto confessato, l’ennesimo stupro commesso ai danni di una protagonista vittima di se stessa, della propria passione e, magari, di qualche disturbo mentale. Di contro, una comunità ottusa che vive di superstizione e culti di facciata, che non capisce e non può, per definizione, capire. La sequenza della confessione in pubblico dell’intero paese, in cui vengono riconosciuti sia un furto che un caso di incesto, è la stessa in cui l’esasperazione di Purì arriva al culmine della teatralità, richiamando a più riprese le migliori sequenze di “Non si sevizia un paperino” (Fulci deve probabilmente più di qualcosa a questo film).

Al tempo stesso la sua avvenenza (per la cronaca, la Lavi girò anche La frusta e il corpo) la fa diventare un facile capro espiatorio delle frustrazioni e delle ipocrisie di una società arcaica e brutale. Quella che doveva essere solo frustrazione per un amore non corrisposto si trasforma in un’attitudine antisociale, che alimenta le ostilità degli abitanti e si tinge, peraltro, di qualche cenno allucinatorio (Purì che crede di parlare con il ragazzino che morirà qualche momento dopo).

A poco varranno i tentativi di redenzione esplicati dalla protagonista, che anzi precipiterà in un vero e proprio incubo dalle dimensioni crescenti, che culmina in un finale tragico (e anche piuttosto amaro). Una modalità narrativa non nuova, quella della donna sola e perseguitata in un ambiente gretto e (almeno in parte) maschilista, anch’essa splendidamente espressa da Lucio Fulci qualche anno dopo (“è lei a maciara, ha fatto ‘o malocchio su ‘e ccase nostre“, dice qui uno dei personaggi) e, in tempi più recenti, ad esempio da Dogville di Lars Von Trier (anche lì i paesani mal sopportano la presenza della protagonista, e ne abusano a più riprese).

Un grande film da rivedere e riscoprire senza esitazione, adatto anche a chi non amasse prettamente l’horror e le sue tematiche.

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