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The last house on dead end street: il singolare horror (inedito in Italia) di Watkins

Appena scarcerato per spaccio di droga, il regista in crisi Terry Hawkins decide di vendicarsi della società realizzando dei film snuff (filmati in cui si vedrebbero esecuzioni e morti reali); alcune persone vengono catturate a tale scopo…

In breve. Finto snuff crudele e nichilista, emulo della lezione del primo Craven e portato all’eccesso; meno banale di quello che potrebbe sembrare. Non per tutti.

Girato nel 1972 ed uscito solo cinque anni dopo (a quanto pare perchè una delle attrici aveva citato in giudizio l’uso non autorizzato di scene hardcore che la ritraevano), è diventato un cult solo dopo una lunga gestazione. The last house on dead end street (che non è un vero snuff, ma possiede la pretesa “artistica”, quasi surrealista, di esserlo) è diviso in due parti: una relativamente ordinaria che racconta i preparativi (con qualche intermezzo splatter), e la seconda che degenera improvvisamente verso l’insostenibile (le torture e la morte di due personaggi). Molto ha giocato in favore della fama del film il fatto che il cast abbia usato pseudonimi (erano tutti studenti della State University of New York ad Oneonta, che hanno sempre negato la propria partecipazione in seguito), e che sia stato creduto un vero snuff fino ai primi anni 2000, periodo in cui Watkins ha ufficializzato su un sito internet di essere stato il regista.

Il film dura circa un’ora e un quarto (una durata quasi perfetta: nonostante questo, non mancano alcune lungaggini) mentre l’originale (custodito in unica copia in un laboratorio cinematografico di New York) durava ben 175 minuti, ed è noto col titolo “The Cuckoo Clocks Of Hell“. Girato interamente in 8mm, The last house on dead end street racconta – mediante una narrazione frammentaria e non lineare – la storia di Terry, dei suoi inquietanti conoscenti, delle sue frequentazioni e in definitiva della sua idea di produrre un nuovo film. Nel farlo, il protagonista si farà aiutare da alcuni degni compari: due prostitute, un cameraman di film pornografici ed un feroce criminale.

Il passaggio più significativo di questo exploitation sporco e cattivo (che si ispira abbastanza chiaramente a L’ultima casa a sinistra di Wes Craven, ma sembra seguire una propria filosofia di fondo che deriva, almeno in parte, da Peeping Tom), mentre cerca a più riprese di emulare lo sporco su video e le riprese amatoriali d’epoca di uno snuff (il taglio delle immagini finisce per evocare certi momenti cruenti di Non aprite quella porta) è determinato da due passaggi basilari: il primo è il dialogo tra il cameraman ed il produttore, che discutono di come i gusti del pubblico siano diventati sempre più difficili da soddisfare. Basta poi sentire Terry pronunciare la frase: “this is not supposed to be funny, it is supposed to be real” (ovvero: l’intrattenimento cede il passo alla brutale realtà della violenza) per provare a capacitarsi delle intenzioni del regista stesso, in un gioco meta-filmico sostanzialmente equilibrato e mai fine a se stesso. Un gioco che resta in qualche modo sospeso a metà, probabilmente anche per un finale che sarebbe stato migliore senza una voce fuori campo a raccontare una conclusione più o meno rassicurante della storia.

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Gli snuff sono una leggenda urbana molto potente: nonostante sia stata più volte smentita la loro effettiva esistenza, grazie ad internet hanno continuato ad essere discussi (più che altro mitologicamente) in blog e forum di ogni genere, almeno nella loro accezione di filmati per cui qualche ricco – viziato e senza scrupoli – abbia pagato per assistere ad un omicidio senza finzione. Un sito autorevole come Snopes ha da tempo smentito la loro esistenza, argomentandola ampiamente (il mito, per inciso, sembrerebbe nascere da alcune cronache giornalistiche del 1969 sulla “family” di Charles Manson), ma qui – come già in Snuff 102, Angoscia e molti altri successivi epigoni – il pubblico resta allibito, bloccato sulla sedia per scoprire cosa succederà nel prossimo passaggio. Il genere finto-snuff, del resto, genera da sempre paure ancestrali, dubbi e paradossi, il più grossolano dei quali è legato ad un pubblico horror sempre più disilluso e difficile da spaventare, che poi guarda film del genere e si scatena in critiche feroci o elogi sperticati, senza possibilità di vie di mezzo.

Il problema di questi film, peraltro, non è nuovo: The last house on dead end street resta in bilico tra una rappresentazione realistica (e, pertanto, estremamente efficace) dell’orrore, e viene girato con perizia ed un certo senso artistico (si guardino le varie tecniche di ripresa, tralasciando le interpretazioni al limite dell’amatoriale). D’altro canto, comunque, l’orrore smette di essere intrattenimento, si sconfina nell’arthouse (i film che spesso ammiri per la loro forma bizzarra, senza capire il perchè), in cui la frammentarietà delle riprese e la gratuità di alcune sequenze rischiano di svilire l’intero contesto, rendendolo un film di serie B comunque considerevole per l’età in cui è stato girato.

Non è facile, quindi, esprimere un giudizio apertamente in positivo o in negativo, ma in questo caso – per l’ambientazione, l’ispirazione vagamente letteraria (il romanzo di Vonnegut Madre notte), le riprese sporche quanto realistiche e mai realmente amatoriali, il tasso di gore elevato e la capacità del film di tenerti incollato alla poltrona, una mezza stella in più possiamo tranquillamente concederla. Tuttavia non si tratta certo di un film “consigliato” – nonostante, come spesso accade in questi casi, la sua fama (un po’ esagerata per certi versi, ma sostanzialmente meritata) di cult abbia portato ad una sua ipervalutazione di forma e di contenuti. Se non altro, The last house on dead end street non tenta di passare per autentico, anzi il suo insistere sulla teatralità delle interpretazioni (in modo sostanzialmente delirante), su certe reazioni dei personaggi, sul continuo framing con le maschere e sulla figura di Zeus (secondo Wikipedia inglese si tratterebbe di Zardoz, la divinità protagonista dell’omonimo post-apocalittico del 1974) conferisce al film un alone grottesco che lo rende uno dei film seminali del periodo anni ’70, nonchè uno dei lavori più oscuri mai girati.

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