Il profumo della signora in nero: il giallo di Barilli che lascia il segno
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Roma. Silvia Hacherman (Mimsy Farmer), impiegata in un’industria chimica, è alle prese con incubi di natura allucinatoria, apparentemente legati ad un trauma infantile mai superato. Fanno capolino nel frattempo svariati personaggi i quali, con modalità simili ad un celebre film di Polanski, sembrano addirittura complottare contro di lei.

In due parole. Film di culto da diversi anni, bello ma in parte sopravvalutato: il suo problema principale è determinato da un legame troppo flebile tra le premesse e le conclusioni della trama, con l’ovvio risultato che parte del pubblico risulterà inevitabilmente spiazzata. La Farmer è calata nel personaggio (ambiguo, sdoppiato, a volte normale altre fragile e condizionabile, come se soggetta ad una regressione all’infanzia “a singhiozzo”) ed esce fuori in modo praticamente perfetto; il resto è un plot caratterizzato da buone interpretazioni ed una solida regia, per quanto il risultato finale – shockante al punto giusto – lasci qualche punto in sospeso di troppo.

La pellicola in questione, datata 1974, diretta da Francesco Barilli e con protagonista Mimsy Farmer (indimenticabile in Quattro mosche di velluto grigio), vede l’attrice, ancora una volta, nei panni di un tipo piuttosto ambiguo. Un personaggio empatico per lo spettatore e spaventoso al tempo stesso, tirato pero’ parecchio per le lunghe che potrebbe, alla lunga, addirittura annoiare. Se anche i meno smaliziati, infatti, capiranno quasi da subito che, nonostante le allucinazioni, i co-protagonisti giochino fin troppo sulla credulità di Silvia, bisogna considerare che il personaggio stesso è stato delineato come se fosse Alice del romanzo di Lewis Carroll, libro che viene citato in più occasioni. Questo è un dettaglio importante perchè rende, se vogliamo, Il profumo della signora in nero una sorta di “favola nera” a tutti gli effetti.

Di fatto molte situazioni sono riconducibili ad altre pellicole più famose, ma bisogna anche considerare che siamo nei primi anni 70 e, con tutti i limiti di mezzi e del caso, il film potrebbe considerarsi come precursore di future tendenze. L’accostamento con “L’inquilino del terzo piano“, del resto – per quanto “prepotente” è inevitabile: la storia è quasi identica, almeno per metà film – non è neanche un paragone del tutto adatto: questo sia perchè la pellicola di Barilli è precedente di due anni (e bisogna darne atto), e poi perchè Polanski difficilmente avrebbe rappresentato le situazioni ultra-cruente del finale (da non anticipare per nessuna ragione, e questo per evitare uno dei più sadici spoiler della storia).

Due i punti di rilevo, di fatto: la rappresentazione archetipica della bambina che parla con Silvia (espressione di un’innocenza smarrita, e in parte repressa) e la definizione dello scenario condominiale, fatto da personaggi piuttosto grotteschi e, a volte, vagamente macchiettistici (anche se la serietà non si smarrisce neanche un po’). In effetti quello che mi ha fatto un po’ svalutare il lavoro, rispetto alle entusiastiche recensioni che ho spulciato in giro, è stata proprio la discrepanza di fondo tra i presupposti pazientemente “cuciti” da Barilli per oltre un’ora e mezza ed il finalone a sorpresa, buttato giù in modo talmente brutale da sembrare messo a casaccio.

Il legame c’è, basta ascoltare con attenzione quello che viene detto a chiare lettere all’inizio del film, ma secondo me per il tipo di pellicola in questione non è sufficentemente chiaro. Questa è una debolezza che non si può, per onestà, fare a meno di tenere in considerazione: è molto difficile esplicare il concetto senza rivelare particolare “scomodi” per chi non ha ancora visto questo film, ma per rendere l’idea potete pensare ad una pellicola classica di Romero – azione, dialoghi, gore –  in cui il finale è stato sostituito da un delirio irrazionale alla Lynch – quanto tremendamente reale. Un po’ come accostare, insomma, lucciole con lanterne, e scaravantare all’improvviso lo spettatore dalla poltrona; e non è nemmeno questione di aggressione o “voglia di fare scalpore” nei suoi confronti, è proprio che “Il profumo della signora in nero” presenta qualche buco narrativo (a cominciare dal titolo), come un filo debolissimo che lega l’intera trama.

La stessa donna del titolo, del resto, ha un ruolo che non è accessorio, ma di certo è meno rilevante di quanto possa sembrare all’inizio. L’idea era ottima di per sè, bisogna riconoscerlo, ma in termini calcistici potremmo dire che il fim vince – perchè vince, beninteso – senza convincere: questo  a dimostrazione del fatto che l’horror è un genere molto più complesso di quanto i critici vogliano farci credere, e non si tratta necessariamente di quattro pupazzi messi accanto a due signorine discinte ed urlanti.

Non voglio dire che “Il profumo della signora in nero” sia un film da evitare, questo nella maniera più assoluta: e tanto per non essere frainteso in tal senso vorrei ricordare che questo film possiede uno dei finali più spaventosi mai visti all’epoca, oltre ad un ritmo interno invidiabile rispetto a qualsiasi omologo vi possa venire in mente. La costruzione della follia della protagonista, vittima degli altri come di se stessa, segue delle sequenze incalzanti che è un piacere farsi scorrere addosso: e questo riporta alla memoria un piccolo capolavoro del cinema di genere quale “Le orme” di Bazzoni (lo stile narrativo, il punto di vista della protagonista e la causalità della storia sono molto simili). Non esente da difetti, quindi, e con vari pregi: questo è “Il profumo della signora un nero“, un film che piacerà a molti appassionati e – secondo me solo in alcuni casi – a chi è abituato al cinema più “ordinario”.

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