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Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto: l’uso della libertà, secondo E. Petri

Via del Tempio, 1: Augusta Terzi viene assassinata dal capo della sezione politica della questura: l’assassino non solo si auto-denuncia, ma cosparge la scena di prove della propria colpevolezza. La macchina burocratica e istituzionale della polizia, corrotta fino all’osso, non potrà mai attivarsi contro il protagonista, in virtù  della massima “Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano“. Questa clamorosa conclusione è ciò a cui ci porta il capolavoro di Elio Petri, uno dei film più famosi del regista romano che si colloca nel clima turbolento degli anni Settanta italiani: all’uscita del film si vociferò di un possibile sequestro, anche per via della concomitanza con gli attentati di piazza Fontana e la morte di Pinelli (la critica di Lotta Continua vide nella figura del protagonista un alias del commissario Calabresi).

Al di là dei contenuti politici – spesso abusati o retorici in altri lavori – e dell’ovvia metafora contro il Potere e le sue perversioni, il film è denso di riferimenti culturali, dallo stile brechtiano e straniante di Volontè (in una delle sue più belle interpretazioni) all’intero paradosso di matrice kafkiana che avvolge l’intera storia. Il capo della sezione omicidi ha appena ucciso la propria amante, e sembra beffarsi delle stesse istituzioni che proteggono lui come altri colleghi corrotti: è una situazione di stallo circolare, in cui non sembra esserci speranza di giustizia se non per la sparuta ed isolata figura dell’anarchico Pace (nomen omen), unico relativo barlume di speranza e positività della storia.

Nessuna impronta interessante, ci sono solo le sue, dottore… sì, su una maniglia, e su una tazzina di caffè, dottore, si vede che lei avrà avuto sonno. Questo nella doccia, lì siamo entrati tutti, anche il dottor Mangani ricorda? E poi nella cucina, anche lì siamo entrati  tutti… e sempre distrattamente avrà preso qualche cosa senza precauzioni… ecco, e poi sul telefono… ma lei senza dubbio avrà telefonato, ricordo benissimo che lei telefonò, e poi su un bicchierino da liquore, ma lei si sentì male, quella sera, un bicchierino di Fernet glielo versai io, si ricorda (Dott. Panunzio)

Un’istituzione giudiziaria evoluta in una macchina cinica e burocratese, in cui nessun uomo comune è realmente al sicuro – ma che, al tempo stesso, si cura bene di proteggere i più forti. Nel farlo, il vero colpo di genio è l’uso del frame tipico del thriller all’italiana, tanto che le prime sequenze evocano i migliori lavori di Fulci o Argento, per poi diventare cinema politico con una forte connotazione “teatrale”. Tale sfumatura è visibile in diversi spaccati del film, come nei frammenti di riflessione interiore del protagonista, o quando ascolta la propria confessione registrata e ne ripete, drammatizzandoli, alcuni passaggi. L’aspetto singolare del film è legato al fatto che l’intera vincenda – quello che sarebbe un giallo, in altre circostanze, con finale a sorpresa – sono orchestrati dal protagonista che si beffa deliberatamente della legge che rappresenta.

La Bolkan è una borghese irrequieta, attratta morbosamente dai segreti del poliziotto e, per estensione, invaghita del Potere (tanto feroce quanto infantile, in questa rappresentazione), arrivando da farsi trattare da bambola nella grottesca ricostruzione di più scene del delitto. Il punto cardine del film passa, poi, per un’intuizione brutale: l’identificazione da parte delle autorità del reato politico con quello criminale (sotto ogni sovversivo può nascondersi un criminale, sotto ogni criminale può nascondersi un sovversivo), il che porta la stessa a prendersi gioco di tutto il resto, e a schedare ferocemente i cittadini infangandoli ed accusandoli a convenienza. Le indagini sull’assassino della Terzi, peraltro, sono svolte da umili individui sottomessi al capo dell’attuale sezione politica, che vivono in perenne soggezione nei suoi confronti e sembrano non avere modo di poterlo incriminare, neanche volendolo sul serio. Uno scenario kafkiano fatto di accenni, riferimenti occulti e cenni di intesa, vissuta dal punto di vista del più forte ed in cui è evidente il senso di straniamento e di assurdo, che non avrebbe sfigurato in una tragi-commedia di Beckett o Ionesco.

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L’importanza culturale di Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto è molteplice: al di là del tentato risveglio delle coscienze e del forte senso di denuncia, si tratta di un importante passo avanti verso una società più adulta, […] più sicura di sé e della democrazia da potersi permettere di criticare istituti tenuti per sacri (corsivo tratto dal Corriere della sera); non quindi una semplice analisi del problema, ma anche una possibile soluzione ed una potenziale svolta dietro l’angolo. Non è un caso che l’unico vero testimone del delitto sia un cittadino proclamatosi anarchico individualista, la cui effettiva efficacia d’azione è comunque messa in discussione dall’ambigua pantomima del poliziotto. La riunione “un po’ all’americana” con il delirio di onnipotenza del dirigente stesso (il cui nome non viene mai pronunciato), il successivo svelarsi di un archivio in corso di informatizzazione (nel quale vengono regolarmente schedati soggetti politici e comuni cittadini: una specie di NSA ante litteram, vista oggi), e la discussione con il commendatore che considera irrilevante l’auto-denuncia del collega (“per me è stato… il marito“) sono soltanto tre dei passaggi magistrali di Investigation of a Citizen Above Suspicion.

L’uso della libertà minaccia da tutte le parti i poteri tradizionali, le autorità costituite… L’uso della libertà, che tende a fare di qualsiasi cittadino un giudice, che ci impedisce di espletare liberamente le nostre sacrosante funzioni. Noi siamo a guardia della legge che vogliamo immutabile, scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne, la città è malata, ad altri spetta il compito di curare e di educare, a noi il dovere di reprimere! La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!

Un film dai registri perfetti, dalle sublimi interpretazioni di tutti i personaggi, i quali recitano un canovaccio dell’assurdo in cui sono tutti colpevoli ma, al tempo stesso, nessuno lo è davvero. Il black humor e la feroce satira di cui è cosparso il film, elemento considerevole di altri lavori di questo genere (ad esempio Signore, Signori, Buonanotte), rendono questo lavoro di Petri forse tra i film italiani più importanti e maturi di sempre. Prima parte della “Trilogia della Nevrosi“, che sarà seguita da La classe operaia va in paradiso (1971) e La proprietà non è più un furto (1973).

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