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La casa di Jack è la discesa all’inferno di Lars Von Trier

Jack è un insospettabile serial killer che si nasconde negli USA anni ’70: il film è un viaggio nella sua complessa personalità.

In breve. Un interminabile, estenuante capolavoro di Von Trier.

Presentato nel maggio 2018 a Cannes ed accolto da una standing ovation di sei minuti (interminabili quanto la durata del film in versione uncut), quanto dalla consuenta e logora polemica sull’eccessivo nichilismo di alcune sequenze. Sulla falsariga di un altro film lunghissimo come Nymphomaniac, si suddivide in 5 episodi (più una κατάβασις – katabasìs, cioè discesa nell’Ade) che raccontano altrettanti omicidi commessi dal protagonista, di cui uno tratto da un racconto di Bradbury (The Fruit at the Bottom of the Bowl). L’origine del film sembra doversi attribuire, come sempre, ad una visione pessimistica dell’esistenza, avvenuta (da quello che racconta lo stesso regista) dopo l’elezione di Donald Trump.

Come prima cosa, Jack (probabile gioco di parole su “jack“, termine inglese utilizzato per indicare il cric del primo episodio) è un serial killer insospettabile, maniacale nella propria intelligenza:  affetto da una forma di schizofrenia che lo rende ossessionato dalla pulizia, riusciamo a scorgerne i dettagli di una personalità complessa. Un ingegnere per imposizione della madre che sogna di fare l’architetto, e da qui la sua ossessione di costruirsi una casa su misura – progetto utopico quanto evidentemente irrealizzabile. La soluzione che riuscirà a trovare – e che gli potrà procurare soddisfazione – è, per quanto prevedibile, a suo modo geniale, forse involontariamente mutuata da altri thriller-horror di qualche anno prima. Il tutto sicuramente affascina il pubblico, almeno quanto l’inquietante Henry o il Frank di Maniac; e questo aiuterà a superare la diffidenza verso l’approccio ad un’opera puramente thriller, un genere che non è mai stato affrontato esplicitamente da Von Trier e che qui, per la prima volta, esplode come genere a sè stante. Ma vale sempre il solito discorso: Von Trier finisce sempre per fare un genere a se stante.

Prendendo in prestito il tono narrativo dai succitati cult del thriller e dal noir puro, La casa di Jack narra in modo inesorabile e più lineare del solito, puramente in prima persona, dal punto di vista dell’assassino; Von Trier racconta una storia dai toni cangianti, disorientanti per il pubblico (sia per il cambio di stile di riprese che per quello narrativo) quanto ricchi di fascino e di stili cinematografici diversi (riprese ordinarie, action cam, stop motion). Ma non c’è solo questo: Von Trier si supera e, in maniera puramente egocentrica (come sarà chiaro dal collage conclusivo di immagini di suoi vecchi film) racconta indirettamente anche la storia della sua esclusione a Cannes (persona non grata in occasione della presentazione di Melancholia), offrendo uno splendido parallelismo tra l’artista ed il killer, entrambi disdegnati dal buon senso quanto amati (o odiati) dal pubblico.

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Se poi si volessero cercare dei difetti nel film, basterebbe considerarne l’eccessiva lunghezza (155 minuti nella versione uncut, probabilmente un paio di minuti in meno in quella italiana) ed un format cinematografico che spiazza: inizia come un thriller classico, presenta vari punti di humour nero, degenera a sprazzi nel torture porn, si permette qualche digressione arthouse a passo uno e, come se non  ne avessimo visto abbastanza, si conclude con un finale puramente surreale (probabilmente con qualche punto di contatto stilistico con quello di Madre!). In questo, Von Trier si supera ancora una volta, proponendo un lavoro completo, che farà discutere (quello è fuori discussione) e che si appiglia a numerosi riferimenti sia storici (la seconda guerra mondiale, il naizmo) e culturali (la metafora della putrefazione, Goethe, Glenn Gould, la Divina Commedia).

A conclusione di questo caleindoscopio di emozioni, schizofrenia ed orrore (le scene realmente cruente sono poche, in realtà, ma restano decisamente impresse), la versione di Hit the road Jack di Ray Charles, nella versione incisa da Buster Poindexter, a creare un effetto grottesco quanto efficace per il contesto. Un personaggio, quello di Jack, destinato ad essere ricordato solo dopo la morte, in un gioco di riflessioni, introspezioni, digressioni filosofiche e, soprattutto, la totale assenza di rimorsi. Gli stessi – sembra di capire – che un artista non dovrebbe mai avere, anche nel caso in cui produca risultati controversi o discutibili.

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