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L’odio di Kassovitz è ancora molto attuale

24 ore di tensione e violenza vissute dal punto di vista di tre giovani abitanti della periferia parigina, subito dopo alcuni scontri con le forze dell’ordine.

In breve. Uno spaccato di violenza urbana dall’impianto tutt’altro che banale, che può permettersi di citare Taxi Driver di Martin Scorsese, Il cacciatore di Michael Cimino e Scarface di Brian De Palma, senza azzardi e sempre col giusto equilibrio. Per molti (non per me, ma è molto relativo), il Kassovitz definitivo, al culmine dell’espressività artistica: sicuramente un gran film.

Un bianco e nero essenziale, scarno ed ambientato in scenari cittadini tanto degradati e poveri – mai poveristici – da sembrare un post apocalittico. Un senso di ansia indefinita che accompagnerà lo spettatore per tutta la visione di tutto il film, e che ci introduce nel mondo di tre amici (Vinz, Hubert e Saïd) che si trovano direttamente coinvolti negli scontri delle banlieue di Parigi: poco prima, infatti, un loro amico stretto è rimasto ferito, ed è stato arrestato dalla polizia. Se lo scenario generale sembra perfetto per rappresentare la violenza delle forze dell’ordine contrapposta a quella della popolazione – con un’unica, neanche eccessiva nè troppo “caricata”, sequenza dell’interrogatorio – “L’odio” di Kassovitz non si limita a questo, e sarebbe ingiusto pensare il contrario. Questo film rappresenta più globalmente il disagio di un quartiere, il suo senso di smarrimento e, per molti versi, la sostanziale assenza di una strategia vera e propria o di leader unici. Uno spaccato realistico, che sembra voler rappresentare vuoto e smarrimento nella sua breve narazione, e che per molti versi sembra realmente vissuto sull’attimo – tanto da far pensare ad un documentario.

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Vincent Cassel (davvero superlativo in questo lavoro: sua, per inciso, la reinterpretazione del De Niro di Taxi Driver davanti allo specchio) mostra un Vinz di estrazione popolare, efficace e privo di stereotipi, arroccato dietro le proprie convinzioni e la pistola che deciderà di portare sempre con sè. È lui, in effetti, a dare al film buona parte della tensione presente, fino ad un finale ambiguo e volutamente sospeso, che lascia più domande che effettive risposte. Se Kassovitz è abile  a formulare domande e ad ideare scenari, del resto, preferisce lasciare qualsiasi giudizio allo spettatore, partendo peraltro da un presupposto chiaro (È la storia di una società che precipita e che mentre sta precipitando si ripete per farsi coraggio fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.) confermato, infine, dalla narrazione stessa.

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