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Quando “Miriam si sveglia a mezzanotte” (T. Scott, 1983)

Miriam vive a New York col suo amante, che soffre (come tutti i precedenti) di invecchiamento precoce; si rivolgeranno ad una dottoressa che sta effettuando da anni ricerche sull’argomento.

In breve. Horror moderno in cui il vampiro diventa una specie di edonista decadente, circondato da amanti effimeri e a caccia di prede in locali dark. Se non fosse per il finale un po’ sconnesso, si parlerebbe di un horror al top sotto ogni punto di vista. Comunque notevole per l’epoca in cui è uscito, uno dei più importanti lavori che “gioca” sul mito del vampiro.

I film moderni sui vampiri sono spesso incentrati sull’interessante opera proposta dalla Bigelow (Il buio si avvicina), che giustamente viene citata come lavoro influente per intere generazioni di registi successivi, in grado di dare un tocco di novità ad un mito, di suo, staticamente – fino ad un certo punto – relegato a castelli abbandonati, crocefissi e compagnia. Al massimo, l’unica novità introdotta era costituita da una componente erotica più marcata, spesso sconfinante nell’eros facile o parodistico (Dracula cerca sangue vergine … e morì di sete) per non dire nel trash (decine di altri b-movie).  Miriam si sveglia a mezzanotte (titolo originale The Hunger), è in questo contesto un solido compromesso tra horror ed erotismo, probabilmente uno dei migliori – e forse meno conosciuti – film di vampiri “deviati dalla norma”. Come il succitato lavoro della regista di Point Break, The hunger condivide il dettaglio singolare che nessuno dei personaggi pronuncia mai esplicitamente la parola “vampiro”.

Capace di segnare l’esordio del regista Tony Scott, e interpretata da un cast memorabile, The hunger è un grande film di genere: Catherine Deneuve, David Bowie e Susan Sarandon, per citare uno dei più celebri. Oltre a essere il debutto del regista (fratello di Ridley) di Una vita al massimo e Top gun, The hunger è un adattamento di un racconto di Whitley Strieber (che nel 2009 ne avrebbe dovuto dirigere il remake, del quale ad oggi non abbiamo notizie), poi sceneggiato da Davis-Thomas. In questa sede il vampiro diventa una sorta di artista ribelle e decadente, raffinato quanto spietato, amante della musica e capace di soddisfare la propria fame (da cui il titolo, tradotto da noi fantasiosamente “Miriam si sveglia a mezzanotte“) frequentando locali dark e musicisti classici. Lo stile registico di Scott, in questa sede, è fortemente influenzato dalla pubblicità (da cui il regista proviene) e dal videoclip, tanto da inframezzare le riprese ordinarie, spesso e volentieri, con fotogrammi rapidissimi che assumono un significato simbolico (Darren Aronofsky nel suo Requiem for a dream farà qualcosa di molto simile): la spietatezza delle scimmie in laboratorioo, la ricerca di sangue simboleggiata da una croce egizia appuntita (la croce ansata, ankh, simbolo della vitalità), i globuli rossi “parassiti” che lottano per sopraffare quelli umani, una componente erotica di classe quanto originalissima (la scena clou si svolge, inaspettatamente, tra le due protagoniste, tanto che il film divenne uno dei preferiti delle comunità gay).

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Di fatto, “The hunger” sembrerebbe una delle prime riedizioni assolute in chiave moderna del mito del vampiro, rielaborato opportunamente badando ad un’eleganza di fondo (nei personaggi, nelle riprese e nell’ambientazione), e senza badare troppo ad elementi considerati evidentemente secondari (della serie: i vampiri si possono, ad esempio, riflettere allo specchio). Memorabile, a tal proposito, la sequenza – paragonata a quella analoga de “Il ritratto di Dorian Gray” – in cui il personaggio interpretato da Bowie invecchia a vista d’occhio in sala d’attesa, portando con sè una foto scattata poco prima come ricordo o testimonianza di ciò che era, ed esplicando il dramma centrale dell’intreccio: gli amanti di Miriam, nonostante siano vampiri, iniziano ad invecchiare precocemente dopo un certo numero di anni, una variazione sul tema tutt’altro che banale e anzi, rispetto all’epoca, assolutamente geniale. Il vampirismo, qui, viene visto come un qualcosa di parzialmente potente e quasi fallace, perfettamente attaccabile da una malattia non curabile come avverrebbe, in effetti, per qualsiasi essere umano.

Il risultato complessivo è una perla del genere, che dosa con sapienza la componente erotica quanto quella del terrore – il sangue è presente a sprazzi, e la parte puramente horror è solo nello splendido, ed epico, (primo) finale. Proprio sul doppio finale della storia, tuttavia, emerge quello che sembra essere il difetto più sostanziale di “The hunger“: la sostituzione della vampira protagonista, infatti, è piuttosto sconnessa dal resto della storia, e spiazza in negativo lo spettatore anche perchè, da scienziata, Sarah non potrebbe mai accettare ciò che sta diventando (ed era pure, peraltro, ferita mortalmente). A quanto pare, pero’, la produzione impose un finale rassicurante, aperto, in cui la storia avrebbe dovuo aprirsi ad ulteriori sequel (mai realizzati in seguito, anche qui), cosa indigesta per prima alla Sarandon, che se ne lamentò in seguito (“ciò che aveva reso il film interessante ai miei occhi, ovvero la domanda ‘Vorresti vivere per sempre se ci fosse un modo clinico per farlo?’ è stato completamente riscritto nel finale, dato che il mio personaggio non muore più“, la traduzione è mia, ndr). Di suo, Bowie lamentò qualche eccesso sanguinolento nel fim, pur riconoscendone una assoluta originalità, che gli fece affermare che nulla di simile fosse stato mai girato prima di allora.

Superlativa la colonna sonora, che mescola il cult dei Bauhaus “Bela Lugosi’s dead” con la musica classica di Schubert (Trio in Mi bemolle maggiore Op.100).

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