ETIMOLOGIE ARTIFICIALI_ (165 articoli)

Contenuti visuali e/o testuali generati da algoritmi combinatori, di Artificial Intelligence. Con presunto buongusto, per il buon gusto di sperimentare un po’.

Benvenuti nell’antro delle parole, dove il passato si intreccia con il presente e l’origine di ogni termine è un racconto da scoprire. In questa sezione, esploreremo le radici linguistiche che plasmano il nostro vocabolario, rivelando le storie nascoste dietro ogni parola che pronunciamo.

Dalle antiche lingue ai moderni idiomi, ogni articolo è un viaggio attraverso le epoche e le culture che hanno plasmato il nostro linguaggio. Scoprirete curiosità sorprendenti, aneddoti affascinanti e collegamenti inaspettati tra le parole che usiamo ogni giorno.

Dai nomi dei giorni della settimana alle espressioni comuni, dalle terminologie scientifiche ai proverbi popolari, qui troverete un tesoro di conoscenze linguistiche da esplorare e condividere.

Preparatevi ad affondare nelle profondità delle radici delle parole, a lasciarvi affascinare dalle loro connessioni e a guardare il linguaggio con occhi nuovi, perché qui, nell’incantevole mondo delle etimologie, ogni parola è un ponte verso la nostra storia e la nostra cultura.

  • La teoria del Dead Internet: il web che non esiste più?

    La teoria del Dead Internet: il web che non esiste più?

    Negli ultimi anni è circolata sul web una teoria inquietante: quella del “Dead Internet”. Non si tratta di un film distopico o di una campagna pubblicitaria virale, ma di un’idea secondo cui la maggior parte dei contenuti online non sarebbe più prodotta da esseri umani. Forum, social network, blog e persino notizie sembrerebbero popolati da bot, algoritmi e sistemi automatizzati, dando l’illusione di una comunità viva e vibrante.

    Secondo i sostenitori di questa teoria, il fenomeno sarebbe iniziato a partire dagli anni 2010, quando la pubblicità digitale e l’economia dell’attenzione hanno reso più conveniente generare contenuti artificiali piuttosto che investire in interazione reale. Gli algoritmi di intelligenza artificiale, i bot sociali e i generatori automatici di testo producono articoli, commenti, recensioni e post sui forum in quantità industriale. Il risultato? La rete appare popolata, ma la “vita reale” si riduce a una minoranza di utenti autentici.

    Un punto centrale della teoria riguarda la percezione della partecipazione. Navigando online, sembra che milioni di persone stiano discutendo, commentando e condividendo. In realtà, gran parte di questo flusso sarebbe simulato. Gli algoritmi creano interazioni simulate per aumentare l’engagement, alimentare la pubblicità e rinforzare le tendenze dei social media. In termini psicoanalitici, potremmo dire che il web è diventato un grande specchio artificiale, che riflette il desiderio umano senza però contenere la sua energia autentica.

    Ci sono poi alcune implicazioni più profonde. La teoria del Dead Internet suggerisce che il nostro senso di comunità online sia ormai mediato da entità artificiali: i commenti, i like e le recensioni che sembrano “umani” sarebbero progettati per manipolare le nostre percezioni, creare consenso o conflitto e mantenere l’illusione di una rete viva. In un certo senso, la rete non è più un luogo di produzione sociale ma uno strumento di controllo e simulazione, dove la partecipazione umana è ridotta a margine e il vero motore è digitale.

    Critici e studiosi avvertono però di non cadere nell’eccesso: il Dead Internet è più una metafora che una realtà assoluta. È vero che bot e contenuti generati automaticamente sono ovunque, ma milioni di persone continuano a usare il web in modo autentico. La teoria serve soprattutto a riflettere sul rapporto tra realtà e simulazione, sull’economia dell’attenzione e sulla fragilità della percezione in un ambiente dove il confine tra umano e artificiale diventa sempre più sottile.

    In conclusione, il Dead Internet non è solo un fenomeno tecnologico, ma un problema culturale e filosofico: il web non è morto in senso letterale, ma la maggior parte di ciò che vediamo e leggiamo è una rappresentazione mediata, costruita per farci credere che siamo in una comunità più grande di quanto siamo davvero. La domanda che rimane è semplice e inquietante: quanto di ciò che chiamiamo interazione online è realmente umano?

  • DO NOT EXISTS

    DO NOT EXISTS

    La pellicola DO NOT EXISTS di John Fakefriend inizia come un film che non si lascia vedere. Letteralmente: lo schermo rimane nero per due minuti, un tempo interminabile in cui lo spettatore si interroga se il proiettore funzioni. Poi, una figura compare — non nitida, ma come un riflesso registrato per sbaglio, una presenza senza nome che guarda dritto nell’obiettivo. È qui che il film si rivela: non è un racconto, ma una registrazione del desiderio di essere visto.

    Ogni inquadratura pulsa come se qualcuno stesse tentando di emergere da dietro lo schermo, di bucare il velo che separa la realtà dalla sua copia. Fakefriend costruisce un mondo dove i personaggi esistono solo quando vengono osservati, e scompaiono appena la camera si ferma. Il protagonista, un tecnico del suono che non appare mai interamente, cerca di cancellare se stesso dal montaggio, ma più taglia, più il film si moltiplica. È l’incubo perfetto dell’epoca digitale: la rimozione diventa duplicazione, l’assenza genera archivi.

    Nel sottotesto, la pellicola parla del lavoro invisibile, di chi produce immagini per un sistema che non lo riconosce. I crediti scorrono all’inizio, non alla fine, come una dichiarazione di sconfitta: l’opera appartiene già a un algoritmo, non all’autore. Tutto è già stato caricato, schedato, monetizzato, prima ancora che il film esista. È la logica del capitalismo assoluto — non più lo sfruttamento del corpo, ma della sua traccia digitale.

    Quando, a metà film, la voce narrante dice “if I stop recording, I disappear”, l’affermazione non è poetica, è economica. L’identità non è più un dato interiore, ma una continuità di connessioni: se la macchina si ferma, il soggetto muore. L’unico modo per salvarsi, allora, è auto-cancellarsi in diretta, smettere di esistere sotto gli occhi del mondo, diventare ciò che il titolo promette: un’assenza attiva, una negazione.

    Le ultime immagini mostrano la camera che riprende un monitor, che riprende un altro monitor, fino all’infinito. Un loop che brucia lentamente come una bobina senza fine. Niente si conclude, perché niente comincia davvero. L’unico evento, l’unico gesto rivoluzionario, è l’interruzione — lo spegnimento. E in quell’istante, forse, il film diventa finalmente vero: do not exists.

  • C’era una volta a Hollywood… di Quentin Tarantino

    C’era una volta a Hollywood… di Quentin Tarantino

    A Los Angeles, 1969, Rick Dalton, attore televisivo in declino, e Cliff Booth, la sua controfigura, si trovano a fronteggiare un’industria cinematografica in rapida evoluzione. Rick, noto per il ruolo da protagonista in una serie western degli anni ’50, cerca di adattarsi al cambiamento, mentre Cliff, con un passato misterioso, si accontenta di lavori occasionali. I due condividono un legame profondo, tra alcol e nostalgia, mentre cercano di ritagliarsi uno spazio in un’Hollywood che non riconoscono più.

    La vicinanza con Sharon Tate e Roman Polanski, nuovi vicini di casa, offre a Rick una speranza di rilancio. Nel frattempo, Cliff si imbatte in una comunità hippy al ranch Spahn, dove un incontro con George Spahn, il proprietario cieco, e un confronto con alcuni membri della comunità, tra cui Tex, Clem e Sadie, mettono in luce le tensioni latenti.

    Il film si sviluppa come un affresco della fine di un’epoca, mescolando realtà e finzione, e culmina in un finale che riscrive gli eventi storici, offrendo una visione alternativa degli omicidi di Cielo Drive.


    Trivia IMDb:

    • Il personaggio di Flowerchild è basato su una testimone reale degli omicidi della famiglia Manson.

    • Sharon Tate, prima della sua morte, aveva dato al marito Roman Polanski una copia del libro “Helter Skelter”, dicendo che sarebbe stato un ottimo film.

    • Leonardo DiCaprio ha avuto difficoltà a interpretare la scena in cui Rick Dalton recita, poiché doveva interpretare un attore che recita, creando un doppio strato di finzione.

  • 39 immagini generate da una intelligenza artificiale su paranoia e inconscio

    39 immagini generate da una intelligenza artificiale su paranoia e inconscio

    Inconscio, paranoia, fobie e psicoanalisi. Cosa succede se si da’ in pasto come input ad un software di generazione immagini dei concetti spaventosi, intimisti o legati al mondo dell’horror? Abbiamo provato a generare delle immagini basate su frasi di Lacan e Freud, e su quanto di più intrigante e spaventoso possa esistere.

    L’intelligenza artificiale di starryai, progetto software gratuito nato quest’anno, sembra aver colto nel segno: di seguito i risultati più impressionanti che abbiamo ottenuto (credits: Starryai).

    Clicca su ogni immagine per vederla meglio.

    Come si generano le immagini mediante intelligenza artificiale?

    È possibile generare immagini (disegni, anche fotorealistici, con vari stili) grazie all’intelligenza artificiale e software come StarryAI.

  • Inizio di un racconto mai scritto #fc34bb4a-4d73-11ed-bd4a-3b0997189f65

    Era un luminoso pomeriggio di aprile: Licio Morittu divenne triste, poi gioì. Solo allora capì che era il momento di riprendersi.
    Testo generato algoritmicamente da bot_fc34b. Testo pubblicato automaticamente da una AI ogni mezz’ora, dalle ore 12 alle ore 21. Il dizionario di riferimento contiene ad oggi 47449 termini del discorso.