DENTRO_ (101 articoli)

Film psicologici, thriller e opere che hanno valorizzato e approfondito gli studi di Lacan, Jung e molti altri.

  • The house: tre episodi a tema domestico (e domotico), su Netflix

    The house: tre episodi a tema domestico (e domotico), su Netflix

    Una famiglia povera quanto manipolabile. Un early adopter delle nuove tecnologie decisamente stressato. Una padrona di casa ossessionata da ristrutturazioni che non farà mai. Elemento narrativo comune, naturalmente: l’abitazione.

    In breve. Episodi animati con una singolare e vividissima tecnica di stop motion, mossa sui toni della dark comedy (ma anche del cinema sociale), con ispirati spunti satirici sulla società di oggi. Divertente e gradevole, con episodi ben bilanciati.

    Enda Walsh, irlandese classe 1967, scrittore e regista noto per Hunger e, verrebbe da dire, da oggi soprattutto per questo The house, da lui stesso interamente concepito. Un lavoro articolato come una serie antologica di animazione, caratterizzato da tre episodi ambientati in tre epoche diverse (un passato simil-ottocentesco, un presente tecnologizzato e – probabilmente – un futuro apocalittico di inondazioni). Un esempio di cartone animato in stop motion pensato per un pubblico adulto, e che – con le opportune accortezze e avvisaglie educative del caso – anche dei ragazzi potrebbero guardare senza troppi patemi. C’è tanto da scrivere su The house (cosa che faremo), ma volendo sintetizzare i tre episodi potremmo vederli come tre narrazioni parallele sul dramma della perfettibilità, l’ossessione che accomuna tanti di noi a crearsi vite, ambienti e relazioni “perfette”, impeccabili, prive di sbavature, lussuose, asettiche. Tendenza che viene seguita da molti a cominciare dalle proprie abitazioni, dove un granello di polvere non è mai il benvenuto, dove si entra solo con le ciabattine e dove il mood rupofobico è crescente, qualche che sia la ragione (e forse addirittura a prescindere dalla pandemia).

    Avviso – Per esigenze di trattazione, i seguenti capitoli potrebbero contenere spoiler, quindi suggerisco di leggere solo dopo aver visto il film .

    Primo episodio

    Argomenti trattati: conflitto generazionale, dramma familiare, vita confortevole vs spartana

    Ci troviamo nella casa di una famigliola di umile condizione, con due figlie piccole, afflitta da problemi economici e con un padre alcolizzato (oltre che dalle fattezze che richiamano, sia pur vagamente, E. A. Poe). Un giorno in cui l’uomo si è allontanato da casa per stare un po’ da solo, incrocia una misteriosa carrozza in cui un anziano signore, che si scoprirà essere un architetto, parla con lui senza che il pubblico senta ciò che si dicono. Si capirà poco dopo: l’architetto ha proposta al protagonista di cambiare casa, andando a stare in una tutta nuova e progettata sul momento all’unica condizione di firmare un contratto ed abbandonare per sempre la vecchia.

    Moglie e marito accettano, la casa viene fatta in tempo record e si tratta di una villa gigantesca che entusiasma i due adulti: le piccole non sembrano troppo d’accordo, e anzi nutrono una crescente curiosità-ostilità per la nuova casa e per le stranezze che la caratterizzano. Tanto per dirne una, sembra che l’architetto sia un po’ bislacco, e stia ancora facendo delle modifiche all’architettura, alterando addirittura la posizione delle scale e creando autentici paradossi spaziali nella casa, in cui le due bambine finiranno per perdersi. Come in Shining, la casa è popolata da presenza grottesche che occupano alcune stanze (e fissano in modo inquietante i nuovi inquilini). Non solo: come nell’opera king-kubrickiana la casa esercita un influsso straniante sugli adulti, che non solo diventano più severi e distaccati verso le figlie, ma si vestiranno da signori per adeguarsi all’eleganza della stessa, lavorando incessantemente ad accedere un camino difettoso e cucire a maglia una lunghissima coperta. La situazione culminerà in un fuoco purificatore da cui, ovviamente, solo alcuni avranno salva la vita, nella speranza di provare a ricostruire in futuro (forse) basandoci su valori meno speculativi. Un episodio dai toni gotici che ricorda, per certi versi, le prime opere animate di Tim Burton (chi ricorda Frankenweenie e Vincent, ad esempio?),  del cui sottogenere gotico rappresenta un buon excursus. Rimane qualche perplessità sul finale, significativo quanto non propriamente allegro e forse, per certi versi, troppo melodrammatico – soprattutto se si guarda The house come un cartone animato per bambini (cosa che non è): ma anche qui, come dire, basta saperlo dall’inizio.

    Secondo episodio

    Argomenti trattati: la casa come status symbol, nevrosi cittadine, devoluzione, entomofobia, rupofobia

    Il secondo episodio è l’autentico gioiello di The house: anzichè i pelosi e oscuri pupazzetti del primo, abbiamo, questa volta, dei topi antropomorfi come protagonisti. Uno in particolare, forse uno startupper oppure (stando a IMDB) un programmatore, sta cercando disperatamente un finanziamento per la propria società, passando le giornate al telefono a prendere contatti. Al tempo stesso vorrebbe vendere la propria casa, che cura compulsivamente in ogni dettaglio e si sforza di mantenere più che pulita, soprattutto disinfestandola dagli insetti che la assaltano (forse ciò avviene solo nella sua immaginazione, viene il dubbio).

    L’entomofobia non è nemmeno l’unica ossessione del protagonista, la cui antipatia verso blatte e simili va di pari passo, a ben vedere, con quella che proviamo da pubblico verso un topo umanoide pelosetto, vestito come un uomo e che cerca grottescamente di imitarne i tic, le manìe, le nevrosi. Il topolino, infatti, dorme in una cantina desolante e priva di mobilio, illuminata solo dalla luce del proprio smartphone ed il tutto, probabilmente, per non rovinare il lussuoso appartamento in vendita. La domotica scintillante che sfoggia, pertanto, non è per lui autentica fonte di comfort, ma solo un qualcosa da ostentare in presenza di ospiti.

    Lo snodo della storia avviene quando alcuni personaggi (due sorci goffi e ridicolmente vestiti da esseri umani) si mostrano interessati all’acquisto, e si installano letteralmente a casa sua prima ancora di averla comprato, creando una situazione ridicola e paradossale. Situazione che un po’ ricorda certi sketch da teatro dell’assurdo dei Monty Python, ma anche, verrebbe da scrivere, film come Madre! di Aronofsky, dove il tema della home invasion era stato ben sviscerato in modo non dissimile da questo, sia pure (in quel caso) con qualche velleità troppo densa, auto-riferita o etero-riferita che fosse.

    Il secondo episodio di The House è davvero straordinario, sia nella definizione spassosa della nevrosi del protagonista (che, ad esempio, sembra essere riuscito addirittura a sbagliare numero ogni volta che telefonava all’amata compagna) che nel finale, un vero e proprio twist che riporta la dimensione narrativa a quella di comunissimi topi o ratti, in grado di devastare l’appartamento e riducendo, suo malgrado, il protagonista ad un animaletto puramente istintuale, tutt’altro che evoluto. Un dramma grottesco che, in questo caso, non poteva che culminare nella devoluzione della razza-topo (e forse, per induzione, di quella umana).

    Terzo episodio

    Argomenti trattati: attaccamento domestico, resistenza e ostilità al cambiamento

    La scelta dei gatti come animali antropomorfi sembra dettata, in questo frangente, dal fatto che sono animali idrofobi (questo per motivi puramente evolutivi, per inciso). Ne vediamo una in particolare: una padrona di casa ossessionata dalle modifiche migliorative alla casa che affitta e che, nella sua idea, dovrebbero renderla degna di essere ricordata e di albergare le esperienze più indimenticabili. Cosa che difficilmente sembra poter avvenire: siamo in un probabile futuro prossimo in cui le inondazioni sono periodiche e frequenti, e la protagonista mostra paradossalmente più attaccamento alle mura domestiche che ai due inquilini, entrambi morosi da diversi mesi (un gatto in grado solo di disegnare, e una gatta hippie a cui presto si avvicenderà un compagno “guru”). In questo caso se il tema portante dell’episodio è chiaramente l’irrealizzabilità del “progetto” (ed il fatto che troppi non riescano a immaginare alcun “cambio di rotta” anche in situazioni estreme), il focus narrativo è molto abile a rendere inizialmente antipatici i due inquilini, che poi saranno quelli a conquistare le simpatie del pubblico, al contrario della padrona che sembra all’inizio l’unica ragionevole.

    Cosa ancora più interessante (e stando a IMDB), questa è solo la prima stagione, The House non finisce qui: si attendono notizie su ulteriori episodi che potrebbero, plausibilmente, vedere la luce a stretto giro.

  • Salò o le 120 giornate di Sodoma

    Salò o le 120 giornate di Sodoma

    Tra le numerose analisi che sono state fatte su questo capolavoro nichilista di Pier Paolo Pasolini da tempo sono convinto che la parola chiave del film sia più Salò, che aiuta storicamente a contestualizzare la violenza rappresentata, che Sodoma (che è un richiamo al limite biblico). Sodoma è una città menzionata nell’Antico Testamento, principalmente nel Libro della Genesi. Insieme a Gomorra e ad altre città, Sodoma è stata distrutta a causa della sua empietà e della sua depravazione morale. Ne potrebbe rappresentare, al più, l’aspetto simbolico, il significato che si è voluto dare alle ben note violenze e depravazioni rappresentate, le quali – vale la pena di ricordarlo nella premessa, a nostro avviso – sono in effetti una rappresentazione degli abusi della gerontocrazia e del patriarcato entrate da mesi nel dibattito pubblico.

    I ragazzi che vengono imprigionati non hanno speranza, fin dall’inizio: viene premesso che si tratta di deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità. Nessuno sulla Terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti. E quella morte assoluta, simbolica e reale, esprime il paradosso che Pasolini stesso ebbe a dire: i giovani non capiranno questo film, quelli d’epoca benintenso, e probabilmente neanche quello di oggi (ci viene da aggiungere).

    Spiegare il significato di “Salò o le 120 giornate di Sodoma” a un ragazzo di oggi può essere delicato, dato il contenuto estremamente adulto e disturbante del film. Bisogna tener conto della sensibilità e dell’età del ragazzo. Tuttavia, in termini generali, si potrebbe dire che il film di Pasolini affronta temi molto profondi e oscuri riguardanti il potere, la corruzione e la degenerazione umana.

    Il film parla di quattro fascisti che assumono un controllo totale su un gruppo di giovani, utilizzandoli per soddisfare i loro desideri più perversi. Può essere interpretato come una critica alla malvagità e alla brutalità del potere, mostrando come coloro che detengono il controllo assoluto possano abusare in modo orribile delle persone più vulnerabili.

    Inoltre, il film può far riflettere sui concetti di degrado morale, perdita di umanità e sulla capacità delle persone di compiere azioni malvagie quando detengono il potere totale su altri.

    Per spiegare questo film a un ragazzo, potrebbe essere utile enfatizzare l’importanza della responsabilità, della compassione e dell’empatia. Si potrebbe discutere dell’abuso di potere e delle conseguenze dell’oppressione sugli individui, incoraggiando una discussione sull’importanza di promuovere una società basata sul rispetto reciproco e sulla giustizia.

    Tuttavia, a causa della natura estremamente adulta e disturbante del film, è essenziale valutare se sia appropriato o meno per l’età e la maturità del ragazzo in questione. Potrebbe essere più adatto concentrarsi su temi più leggeri e accessibili, in modo da garantire una comprensione appropriata e una discussione che sia adatta al suo livello di età e comprensione.

    Salò o le 120 giornate di Sodoma” è considerato uno dei film più controversi e provocatori nella storia del cinema per la sua rappresentazione cruda e disturbante della violenza e della depravazione umana. Pasolini ha voluto creare uno sguardo critico sulla società e sul potere, ma la natura estrema del film ha portato a una vasta gamma di reazioni, spesso negative, da parte del pubblico e della critica.

    Pier Paolo Pasolini venne assassinato prima dell’uscita di questo film: Pino Pelosi è indicato come responsabile, viene arrestato, ritratta varie volte la propria versione e non fu mai chiarito se l’omicidio sia avvenuto per sua manu o per colpa di altri sconosciuti presenti sul posto.

    Salò

    La città di Salò fu sede del governo della Repubblica Sociale Italiana (RSI), un regime fascista di Adolf Hitler ,durante gli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale. La scelta di ambientare il film durante questo periodo storico specifico è intenzionale e significativa: Salò è diventata nota per essere stata la sede del governo fascista dopo che Mussolini venne destituito e arrestato nel 1943. Durante questo periodo, l’Italia era divisa in zone controllate dai nazisti e da altre forze alleate, e la RSI operava come una sorta di enclave fascista.

    Pasolini ha ambientato il suo film in questo contesto storico per mettere in luce l’abuso di potere, la corruzione e la degenerazione morale del regime fascista. L’orrore del film è l’orrore del potere abusante che non deve tenere conto di nulla e di nessuno. La rappresentazione delle perversioni sessuali si ispirano a De Sade, come note, e rendono la sessualità un inferno, un sinonimo di abuso, tanto marcato e spinto all’estremo che diventa difficile guardare una seconda volta Salò dopo averlo vista la prima. Ma non bisognerebbe perdere d’occhio la localizzazione storica: la scelta di usare Salò come sfondo per la storia è simbolica della disgregazione etica e della decadenza umana sottolineate nel film, nonchè del fatto che il fascismo continua a serpeggiare tra di noi.

    Il film “Salò o le 120 giornate di Sodoma” è stato diretto dal regista italiano Pier Paolo Pasolini ed esce nel 1975, poco dopo la morte del regista. Viene sequestrato quasi subito, è oggetto di infinite polemiche e divieti, fino alla sua riabilitazione e restauro successivo.

    Trama

    Il film è ambientato durante la Repubblica Sociale Italiana del 1944, durante gli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale. Quattro potenti fascisti, noti come “Il Presidente”, “Il Magistrato”, “Il Vescovo” e “Il Duca”, organizzano un regime sadico e depravato in una villa isolata, dove rapiscono giovani uomini e donne per soddisfare i loro desideri sessuali e per esercitare il loro totale controllo su di loro. Questi prigionieri sono sottoposti a abusi sessuali, torture psicologiche e fisiche estreme.

    Il film è diviso in quattro parti, ognuna corrispondente a una delle quattro passioni umane principali: la sodomia, il sadismo, il necrofilia e l’omaggio finale alla volontà dei signori.

    Cast principale

    Il cast del film include attori come Paolo Bonacelli, Giorgio Cataldi, Umberto Paolo Quintavalle e Aldo Valletti nei ruoli dei quattro fascisti. Tra gli attori principali ci sono anche Hélène Surgère, Caterina Boratto e Elsa De Giorgi, che interpretano le figure femminili coinvolte nella storia.

    Alcune locandine del film

    Narrazione

    Il film è basato sul romanzo del Marchese de Sade “Le 120 giornate di Sodoma”. Pasolini ha usato il racconto del marchese nel contesto politico dell’Italia fascista, utilizzando la storia per commentare su vari aspetti della società, inclusi il potere, la corruzione, l’abuso e la violenza.

    La pellicola è estremamente controversa per le sue rappresentazioni esplicite e crudeli di violenza sessuale, tortura e umiliazione. È stata oggetto di censura e divieti in molti paesi per lungo tempo a causa della sua natura estremamente spaventosa.

    Produzione

    Il film è stato girato in diverse location in Italia, tra cui una villa nella città di Bologna. La realizzazione è stata caratterizzata da un budget limitato e da condizioni difficili durante la produzione.

  • Velluto blu: il noir fuori dalle righe di David Lynch

    Velluto blu: il noir fuori dalle righe di David Lynch

    Velluto blu (Blue Velvet) fu girato nel 1986, da un David Lynch reduce dall’esperienza non esaltante di Dune: una fantascienza atipica che, per inciso, non fu mai considerata tra le sue migliori opere. Il titolo del film, che è tratto da una canzone classica di Bobby Vinton (e viene interpretata dal personaggio della cantante, la “signora in blu“, ovvero Isabella Rosellini), racconta una sorta di noir, immediatamente riconoscibile dal formato e dal ritmo, alla  scoperta di un mondo nascosto nell’apparente ordinarietà di una cittadina di provincia americana. Il velluto blu, per la cronaca, è il tratto distintivo di un feroce criminale (Frank), il quale lo usa per imbavagliare o soffocare le vittime dei suoi soprusi, strappandolo dal vestito di una cantante di cui è invaghito.

    Al di là del celebre dettaglio dell’orecchio mozzato, in effetti, i primi minuti del film non rientrano neanche nel tipico surrealismo lynchiano, che rinuncia alla sua consueta narrazione non lineare e non pone, almeno all’inizio, particolari dettagli disorientanti. Velluto blu è pertanto un unicum lynchiano per vari motivi e scelte stilistiche, e resta probabilmente tra i film più accessibili e lineari del regista, ideale per chi volesse conoscere o approcciare al suo mondo risparmiandosi le divagazioni mistiche e surreali che, di lì a qualche anno, avrebbero caratterizzato tutto il resto della sua cinematografia.

    Jeffrey Beaumont è l’archetipo del giovane curioso (dal gusto voyeur, per quanto apparentemente solo ingenuo) che aleggia nella stragrande maggioranza dei thriller (ad esempio argentiani), con un protagonista che opta per le indagini “fai da te” perchè stregato da una vicenda macabra di fondo di cui viene a conoscenza (il malore del padre ed il ritrovamento dell’orecchio nel giardino) e – di riflesso – si lascia sedurre dalla mite figlia del detective (simbolo di amore puro) che dalla conturbante signora in blu (verso cui rivolge attenzioni inaspettate e quasi feticistiche). Jeffrey è un personaggio molto particolare e sostanzialmente duale: archetipo del “bravo ragazzo della porta accanto“, è altrettanto efficace come indagatore improvvisato, attratto inconsciamente da quello che si rivelerà il personaggio chiave nel film o forse, solo dalla sua storia dolorosa (da cui la battuta “non so se sei un detective o un pervertito“). Blue velvet si prefigura una storia di mistero, in cui vengono svelati vari, progressivi scheletri nell’armadio (Jeffrey che si nasconde letteralmente nell’armadio, guarda caso), innestati negli appartamenti dei rispettivi protagonisti, e basati su varie forme di feticismo, relazioni sadiche e sado-masochiste. L’ingresso in scena di Frank, un sadico criminale con una dipendenza da un gas (probabilmente popper), porrà il protagonista nella condizione di autentico voyeur, certificandone i tratti e coinvolgendolo in una storia molto più grande di lui.

    Hai messo la tua malattia in me.

    Il film suscitò anche discrete polemiche all’epoca dell’uscita, rimarcate dal critico Roger Ebert il quale, pur amando quasi incondizionatamente gli altri film di Lynch, fu estremamente critico nei confronti di Blue velvet, tacciandolo di volgarità e misoginia: la presunta degradazione del corpo della Rossellini, tuttavia, sembra funzionale all’intreccio (Dorothy è sottomessa a Frank perchè, di fatto, viene ricattata da quest’ultimo, dato che Frank gli ha rapito sia marito che figlio) e non è mai fine a se stessa. E anche se si volesse pensare ad un parallelismo con romanzi erotici tipo Histoire d’O, in cui esiste una sorta di sublimazione erotica del rapporto masochistico, bisognerebbe sempre dare priorità al contesto. Questo è vero, secondo me, perchè la forza dell’intreccio è determinata proprio dalla relazione controversa, scabrosa e obiettivamente difficile da risolvere, in cui Jeffrey è attratto contemporaneamente dalla purezza di Sandy e dalla perversione di Dorothy (salvo poi empatizzare con entrambe), senza che ciò abbia connotati di manifesto sociale ma solo, più semplicemente, con valenza simbolico-concettuale, come spessissimo avviene in Lynch.

    C’è da sottolineare a questo punto che, come spesso accade nelle produzioni di Lynch (e come sottolineato da Slavoj Zizek, ad esempio) tutte le scene più esplicite di Velluto blu sono ambientate in una sorta di non-luogo, che è l’appartamento della signora in blu, in cui ogni inibizione morale è abolita (si praticano sesso sadico e voyeurismo) e dove lo spettatore, per primo, è costretto ad affrontare i propri tabù, le inibizioni ed i desideri più inconfessabili. E vale lo stesso discorso per le scene più violente, che avvengono in un parcheggio sperduto che sembra tratto da un incubo senza fine per il povero Jeffrey. I due episodi chiave si trovano al centro di una storia che, lo ricordiamo, è un noir classico, con un focus sull’indagine “autogestita” dal protagonista che fa da contorno ad un disvelamento psicologico e sessuale dei personaggi sempre più esplicito, con il ruolo dei personaggi che finisce quasi sempre per travalicare le apparenze. A questo si aggiunge un clima sempre più crudo ed exploitativo, che si avvia durante la cattura di Jeffrey, ripetutamente aggredito e umiliato dalla banda di Frank con dinamiche che, quasi insolitamente per Lynch, sembrano tratte da un road movie di qualche decennio prima. Clima che poi diventa quasi tarantiniano: al rientro nell’appartamento di Dorothy, la vista del marito di lei assassinatoo e dell’uomo in giallo in piedi, lobotomizzato, siamo semplicemente al clou della storia. Dopo circa due ore di film, peraltro, resta benzina anche per un discreto twist finale, in cui Lynch relega al protagonista un ruolo risolutore e liberatorio, per quanto (o forse proprio per via del fatto che) la vicenda l’abbia quasi distrutto psicologicamente. Jeffrey colpirà mortalmente il sadico Frank giusto sbucando dall’armadio, lo stesso che – tradizione vuole – nasconde gli amanti di ogni ordine e grado, e che lui stesso aveva sfruttato per definire il proprio bizzarro rapporto con Dorothy. Dorothy che lo ama, Dorothy che vuole essere maltrattata da lui, Dorothy che provoca una crisi ad entrambi – per poi rientrare nei ranghi della normalità, con un finale profondamente utopistico e carico di positività, in cui Lynch affida ai pettirossi il ruolo simbolico della rinascita, interrogandosi pero’ sull’ennesima bizzarria: come faranno mai a nutrirsi di insetti?

  • Non è un paese per vecchi: nella mente di Chigurh (e oltre)

    Non è un paese per vecchi: nella mente di Chigurh (e oltre)

    1980: durante una battuta di caccia Llewelyn Moss si imbatte casualmente in un regolamento di conti tra bande della zona. Mentre si guarda attorno, trova una valigia piena di soldi in contanti…

    In breve. I fratelli Cohen propongono un intreccio quasi alla Tarantino, e lo declinano come un noir snello, accattivante e moderno. Un gran film che riscuote, ancora oggi, il successo che merita, al netto di un finale spiazzante che potrebbe, per varie ragioni, non piacere a tutti.

    In Italia lo abbiamo conosciuto nelle sale nel 2008, e da allora è stato un tripudio di premi vinti: 4 Oscar, come miglior film, migliore regia, miglior attore non protagonista per Javier Bardem e migliore sceneggiatura non originale, più un David di Donatello come miglior film straniero.

    Non è un paese per vecchi – a dispetto del titolo che suggerisce, falsamente, un mood da cinema d’essai – è il noir snello e accattivante che un po’ tutti stavano aspettando, diretto e brutale quanto basta, movimentato e ricco di colpi di scena, senza orpelli o personaggi inutili, per sua natura avulso da riflessioni cripto-intellettuali. In un certo senso è anche curioso osservare come “non è un paese per vecchi” sia una massima ancora valida, ancora più sinistra ed attuale oggi rispetto a 13 anni fa, in tempi di pandemia o post-pandemia che dir si voglia (al momento in cui scrivo non è chiaro di quale delle due sia più lecito parlare). Un film da non confondersi, per la cronaca (lo scrivo per evitare svarioni a cui non sarei stato immune fino a qualche ora fa) con Non è un paese per giovani, che è una commedia italiana decisamente su altri toni, uscita 9 anni dopo questo lavoro.

    Il film dei Cohen ha intrigato soprattutto per la sua linearità di fondo, che non è mai banalità o faciloneria, e che si ammanta di un’eleganza inconfondibile che spesso, in film del genere, latita – specie qualora cedano al trash tipico dei film d’azione modello The guest. Difficilmente un film è riuscito a suscitare più interrogativi e curiosità sul web, peraltro, di “Non è un paese per vecchi“: dalla quantità colossale di aforismi (a volte citati a sproposito, come classico effetto web impone), passando per le curiosità su vari aspetti insoliti della trama – che si ravvisano soprattutto nel twist a circa 20 minuti dalla fine, che spiazza il pubblico per via del suo climax (lo stesso che sarebbe consuetudine, in questi casi) stravolto questa volta in modo imprevedibile, impossibile da raccontare senza fare spoiler. Come se non bastasse, c’è poi un’unica nota concettuale proprio nella sequenza finale, in cui lo sceriffo racconta due sogni che ha appena fatto, che se dicono qualcosa del suo confuso senso di colpa (sul quale si potrebbe scrivere un tomo di psicologia, dato che si tratta la consueta frustazione da poliziotto cinematografico che non può, nè potrà mai avere, il pieno controllo della situazione).

    Il film del 2008 dei Cohen è virato sui toni del noir-western in chiave moderna, in cui si racconta una storia che sarà abbondantemente ripresa anche da film come Hell or high water, film he sembra aver “imparato la lezione” proprio da qui. Se è vero che la bellezza delle cose risiede nella semplicità, del resto, la cosa vale anche per Non è un paese per vecchi, che si avvia su un intrigo simil-tarantiniano: un operaio reduce dal Vietnam si imbatte in un regolamento di conti tra spacciatori finito male. Sembrano tutti morti, tranne un ferito impossibilitato a muoversi, e a quel punto Llewelyn Moss (teoricamente il “buono” della storia, dalle fattezze che evocano curiosamente il Kurt Russell dei tempi d’oro) pensa bene di portarsi via la classica valigia piena di soldi. Sarà l’inizio di una feroce persecuzione da parte dei complici dei criminali, che inizieranno a seguirlo per riprendersi il malloppo, senza contare la polizia che si metterà anch’essa sulle sue traccie avviando una duplice caccia all’uomo (che poi diventerà triplice, dato che anche altri personaggi si metteranno in coda, mossi da rispettivi interessi).

    Se le regole che hai seguito ti hanno portato fino a questo punto, a che servivano quelle regole?

    Non è un paese per vecchi si svolge su almeno tre piani paralleli: il punto di vista dello sceriffo che indaga sul caso, e che propina la massima del titolo (all’inizio infatti lo sentiamo snocciolare, nei suoi ricordi fitti di sensi di colpa, una considerazione sul tasso di violenza attuale che rende, di fatto, gli anziani praticamente inadatti a sopravvivere a determinate circostanze). Abbiamo poi il punto di vista di Moss, immedesimato nella parte della preda in una tesissima caccia da cui, da buon film USA, riesce comunque a destreggiarsi tra armi, fughe e salvataggi in extremis senza complimenti.

    Non poteva mancare – ed è forse quello che impreziosisce di più la pellicola – il punto di vista del cinico Chigurh, il personaggio più spaventoso e profondo del film, tra i più motivati a riprendersi il maltolto, dotato di una singolare crudeltà, tanto da uccidere con modalità che ricordano quelle di un enigmatico villain modello Venerdì 13 o Halloween. Il vero protagonista in effetti è proprio lui, tanto che la vera anomalia – a volerne cercare una ulteriore – è che il film non riporta il suo nome nel titolo. La profondità del personaggio dal punto di vista psichiatrico, peraltro, è confermata da uno studio pubblicato da Business Insider, che colloca Chigurh tra gli psicopatici più realistici mai rappresentati su uno schermo, superiore anche al protagonista di Henry: questo avviene sia per la sua apparente invincibilità (che lo rende simile a Michael Myers) che per la sua freddezza e mancanza di empatìa verso chiunque. Non solo: Chigurh mostra sempre un passo in più rispetto a tutti gli altri, e la sua scaltrezza lo caratterizza in modo profondo e lo rende, teoricamente, una sorta di spettro immortale (tant’è che viene appellato così almeno in un caso).

    La caratterizzazione dei tipi è forte, talmente marcata da restare impressa nella memoria più di qualsiasi altra cosa: il trittico in questione, di fatto, focalizza tre personaggi molto ben delineati, e questo si deve ovviamente alla regia e anche, probabilmente, sulla falsariga del libro da cui è tratto il film, No Country for Old Men di Cormac McCarthy.

    Che poi, a ben vedere, il film troppo mainstream nemmeno è, dato che i registi non risparmiano nulla sugli aspetti più truci, su qualche pennellata di humour nero e sulla mancanza (ovvia, a cominciare dal titolo) di happy end. Senza contare ulteriori aspetti che hanno catturato l’attenzione del pubblico come, per citare un esempio abusato, la singolarità delle armi utilizzate: il fucile a pompa “artigianale” di cui tutti hanno discusso (invenzione dei Cohen), ma soprattutto la pistola ad aria compressa o a proiettile captivo, che è quella che viene utilizzata da Chigurh all’inizio (quella collegata ad una bombola). Piccoli e grandi dettagli, insomma, che riescono in un’impresa titanica rispetto a quello che in ballo: tenere lo spettatore effettivamente incollato alla poltrona fino alla fine, violando addirittura la massima (attribuita a Hitchcock) sul fatto che “la durata di un film dovrebbe essere direttamente proporzionale alla capacità di resistenza della vescica umana“: Non è un paese per vecchi dura un paio d’ore, è ricco di avvolgenti colpi di scena e riesce, soprattutto, a non pesare sulla soglia di attenzione dello spettatore medio, essendo cinema diretto, efficace e privo di fronzoli.

    Sul finale tanto è stato scritto: tanto da sembrare nulla, data l’inevitabile crittografia e messaggi in codice che i critici hanno usato e abusato nella situazione. Il motivo per cui il film ad un certo punto sembra collassare su se stesso suggerisce una forma di marcato nichilismo, a cui i due registi sembrano aderire senza remore. Il tutto nonostante le considerazioni promosse nella trama sul male e l’avidità degli uomini sembrino quasi moralisticheggianti, o addirittura banalotte. C’è da dire, peraltro, che è la figura dello sceriffo a risollevare almeno in parte le sorti della vicenda, la quale si sarebbe potuta chiudere sull’ambiguità o su registri analoghi. La certezza materialistica, di fatto, è che Chigurh uccide, e ciò cede il passo a qualsiasi altra considerazione (almeno in apparenza).

    In realtà alla fine la narrazione viene dirottata su un piano onirico-concettuale: lo sceriffo ammette indirettamente ad un altro personaggio il proprio senso di colpa per episodi del proprio passato finiti male, per i quali non c’è stata giustizia, poi racconta alla moglie di uno strano sogno in cui c’era il padre (morto quasi certamente sul lavoro, da sceriffo, anche lui) che in un caso gli dava dei soldi, in un altro camminava assieme a lui, diretti verso una meta ignota. Come questo si leghi alla storia a cui abbiamo assistito non è dato sapere, ma resta senza dubbio più rilevante di qualsiasi altra considerazione il fatto che l’uomo sembri, grazie alla narrazione catartica che si concede – e sia pur nelle ombre di due sogni che denotano forse il turbamento del proprio inconscio – liberarsi dal fardello del senso di colpa che lo attanagliava da sempre. Questo mi sembra il punto chiave, fermo restando che scomodare altri aspetti significa quasi certamente fare solo illazioni. Il focus dell’intreccio, a quel punto, sembra diventare universale, suggerendo che una possibile consolazione sia proprio nel senso di liberazione dall’impotenza – e forse dal controllo ossessivo-compulsivo tipico delle autorità, che vorrebbero poter prevenire o curare tutti i mali del mondo.

    Motivi validissimo per riprendere ancora oggi visione dell’opera, davvero molto bella (nonostante quel finale innestato quasi “a tradimento” rispetto al ritmo generale del lavoro), che non risente del tempo trascorso e che, se da un lato è forse esagerato considerarla tra le pellicole più belle del secolo, dall’altro va riconosciuta la sua capacità di sintesi e di ispirazioni per molte generazioni di cineasti successive, che da qui avrebbero attinto a piene mani nel seguito. Di sicuro, peraltro, non è un’esagerazione pensarlo come un film su uno dei serial killer più impressionanti mai visti al cinema, in grado di rivaleggiare con qualsiasi altro, ed in grado anche di rendere quel male espressione universale delle angosce che viviamo ogni giorno.

    Disponibile in streaming sulle piattaforme Netflix e Chilli.

  • La scuola cattolica: l’Italia anni ’70 basata sul romanzo di Albinati

    La scuola cattolica: l’Italia anni ’70 basata sul romanzo di Albinati

    Settembre 1975, Roma: un gruppo di ragazzi benestanti frequenta una scuola cattolica, in cui ogni insegnamento è erogato alla luce della religione, mentre le contraddizioni non mancano, a nessun livello, e presto esploderanno. Si tratta del contesto in cui emergeranno i fatti tristemente noti della strage del Circeo.

    In breve. Un film tragico e realistico, ispirato a fatti realmente accaduti, che lascia un profondo segno nelle coscienze, tra mille irrisolti e ingiustizie.

    La scuola cattolica racconta una Roma anni ’70 parzialmente atipica, lontana dal contesto generale in cui si muoveva la società dell’epoca ed in cui un delitto, alla fine, sarà commesso quasi come fosse un gioco come un altro.

    Il focus del film dovrebbe coincidere con quello del romanzo di Albinati da cui è tratto, vincitore di un Premio Strega nel 2016. Se la cinematografia di genere ha raramente raccontato la strage del Circeo nella storia, resta vero che si è ispirata a quei fatti a più riprese, ispirando – anche solo a grandi linee – film controversi di fiction come La casa sperduta nel parco o Morituris. Ma il parallelismo finisce lì, perchè sembrano molto diverse le motivazioni: se quei lavori erano (in alcuni casi) finalizzati allo shock dello spettatore e ad una filosofia nichilista,  in questa sede la sofferenza interiore dei personaggi (e la loro violenza malcelata) è frutto del contesto sociale, a cui il regista conferisce grande rilievo. Gran parte del film, infatti, è abile a mostrare contraddizioni innate: padri autoritari che picchiano i figli, una società poco aperta agli scambi con l’esterno, un perbenismo di facciata che si specchia narcisisticamente nella finta sicumera dei giovani protagonisti. Giovani che si ritrovano immersi in un contesto asettico e machistico, che era destinato, in effetti, a lasciare il segno anche sulle generazioni successive.

    Questo vale non solo dal punto di vista della storia narrata (alcuni dettagli di cronaca mancano, come ad esempio il fatto che i ragazzi avessero inizialmente offerto dei soldi alle ragazze per avere del sesso, le stesse abbiano rifiutato e da lì sia degenerato il tutto in violenza), ma anche del contesto in cui si muovono i personaggi: si evidenzia come fosse svolta l’educazione cattolica, come il clima di repressione sociale avesse finito per creare uno strato di polvere sotto il tappeto, impossibile da nascondere ulteriormente, ma anche di come la sessualità – in fondo – finisse per spaventare tutta quella generazione, vedi ad esempio il coming out del padre di uno di quei ragazzi, abbastanza per destabilizzare la serenità familiare. Insomma, regia e sceneggiatura sembrano suggerire che il contesto irreprensibile e benestante non sia stato sufficente a prevenire quei fatti. Il sequestro delle due giovani donne, di cui solo Donatella Colasanti riuscirà a salvarsi (come noto, fingendosi morta), è il picco a cui si perveniene in modo quasi inaspettato, per un film che ha il chiaro intento di porre domande tuttora irrisolte, nonchè oggetto di infiniti dibattiti parlamentari (lo stupro venne considerato reato contro la persona – e non solo contro la morale pubblica – dal 1996 in poi).

    La regia di Mordini è abile a contestualizzare la trama, peraltro, anche dal punto di vista delle uscite cinematografiche dell’epoca: la madre sessualmente repressa è distratta per strada dalla locandina di un film erotico (molto in voga all’epoca), mentre il cinema in cui sarebbero dovuti andare i ragazzi, ad esempio, mostra di sfuggita la locandina di Profondo rosso. Mancano invece riferimenti politici veri e propri, dai movimenti extra-parlamentari alle vicende socio-politiche dell’epoca, scelta forse dettata dal voler sottolineare l’ambiente ovattato in cui quei ragazzi erano cresciuti, oltre ad una mirata critica a quella forma di educazione cattolica. E fa una certa sensazione, forse, che manchino del tutto i riferimenti agli estremismi politici dell’epoca, che condizionarono almeno in parte la cronaca, cosa che il film cita solo di sfuggita (uno dei ragazzi viene ripreso dal professore di italiano per aver svolto un tema elogiativo di Hitler, ed un suo compagno accenna un’invettiva contro il “socialismo” per difenderlo). Resta il dubbio sull’efficacia della scelta, ma al netto di questo il film colpisce nel segno, oltre ad essere vittima di un (abbastanza clamoroso) episodio di censura.

    Il ministro Franceschini, qualche tempo fa (inizio aprile 2021) aveva annunciato l’abolizione della censura cinematografica, considerando pertanto “definitivamente superato quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti” (lo stesso meccanismo che aveva colpito il succitato lavoro di Raffaele Picchio, Morituris, oltre a Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco). Di fatto ha l’aria di essere, nella pratica, un’abolizione – che semanticamente implicherebbe la scomparsa in toto del meccanismo – solo formale, perchè alla fine dei conti essa finisce per scaricare la responsabilità della classificazione (attraverso divieti ai minori di 6, 14 o 18 anni) sulla produzione, mentre una Commissione unica composta da varie personalità (tra cui psicologi, pedagogisti e ambientalisti) può confermare la scelta o, al limite, suggerire la propria. Un riassemblamento di regole precedenti, insomma, rivedute e corrette, che forse cambiano meno di quanto potrebbe sembrare a prima vista.

    Nel caso del film in questione, la Commissione ha ritenuto di vietare La scuola cattolica ai minori di 18 anni, per via della (presunta) equiparazione tra vittime e carnefici proposta dal soggetto. Vale la pena di ricordare che questa motivazione (“Il film presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice […] incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti“) non è troppo diversa dal feeling totalizzante e distruttivo che bocciò Morituris (ben più feroce: “la Commissione ritiene la pellicola un saggio di perversività e sadismo gratuiti“), e fa riflettere che il secondo giudizio, sia pur su un’opera di fiction, abbia addirittura bloccato l’uscita nelle sale dell’opera.

    Nonostante il feeling dei due film sia diverso – il lavoro di Picchio è un horror surreale contenente un climax apocalittico di violenze, che evoca un senso di colpa collettivo, quasi lovecraftiano, sull’intera umanità, quello di Mordini narra fatti reali, mostra una società in crisi, non insiste sulla violenza, la tratta con il giusto equilibrio – qualche riflessione possiamo farla. Nonostante La scuola cattolica non sia un film per bambini, vietare ai minori un film del genere, che tratta di delitti reali avvenuti tra ragazzi giovanissimi, tra cui un minorenne, appare quantomeno paradossale, proprio perchè non sembra esattamente favorire un qualsiasi dibattito in merito, che invece sarebbe stato fondamentale. Il problema di fondo della censura, a questo punto, risiede forse nell’arbitrarietà delle sue scelte, al netto dei cavilli burocratici che la caratterizzano volta per volta, i quali possono sconfinare in giudizi di merito sulla parte artistica. La sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice di cui si parla in quelle motivazioni, a mio parere, è una considerazione arbitraria o discutibile, tutt’altro che assodata: se fosse così, da un certo punto di vista, avremmo assistito ad una shoxploitation cruda, cinica o sessista, cosa che il film si guarda bene dall’essere.  Impedire la visione ai minorenni di un film del genere, come risulta ad oggi, rischia di essere definitivamente fuorviante rispetto alla sostanza dell’opera, spostando inesorabilmente l’attenzione sul dito, per non guardare la luna che stava indicando.

    Di fatto La scuola cattolica è diretto in modo lineare, cupo e con la sensazione costante che qualcosa non quadri, che ci sia qualche scheletro nell’armadio di quelle vite apparentemente irreprensibili, lasciando un monito di profondo vuoto nella coscienza degli spettatori. Gli sguardi fissi di molti personaggi, quasi ad annunciare la loro definitiva degenerazione (e che ricordano quelli dei pazienti psichiatrici, per certi versi), rimarranno impressi nella memoria degli spettatori per molto tempo, evocando un senso di nulla, di mancanza di tutele, di mancanza totale di sensibilità di una società che certe idee di quei gruppi sociali le ha quasi interiorizzate, fuorviata dal benaltrismo imperante. Un vuoto spaventoso che, ancora oggi, non si è colmato, soprattutto sulla falsariga dell’eco della frase finale del film, che cito a memoria: per molto tempo molti genitori si preoccuparono che i propri figli potessero fare lo stesso. Poi, tutto tornò come prima.