Pochi film sono epocali come “Taxi Driver”
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Gli incubi individuali della metropoli che sfociano nel dramma di Travis Bickle, un individuo solo come tanti “ce ne sono in ogni strada“. Un cane sciolto, reduce del Vietnam, che per insonnia accetta un lavoro da tassista di notte.

Il suo evidente conservatorismo è frutto non tanto di paraocchi, bensì di senso di frustrazione per quel mondo su cui sta perdendo il controllo. Quel mondo pieno di spazzatura, di cui non sente di fare parte. Quel mondo che vìola che coscienze dei singoli (simbolo più estremo, la prostituta 13 enne): e nell’iconografia di un mohicano metropolitano, sfoga (dopo l’ennesima delusione ed una preparazione estenuante) la propria rabbia sulla società corrotta, senza pero’ riuscire a fare il gesto eclatante che avrebbe dato un senso alla sua vita (mancato attentato al senatore candidato presidente).

La scena finale dovrebbe essere catartica, ma finisce per essere semplicemente onirica: si tratta della realtà oppure è soltanto ciò che immagina il protagonista? Il taglio di capelli finale non dovrebbe, sulla carta, lasciare dubbi allo spettatore.

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