The ABCs of death è l’antologia horror altalenante e ossessiva
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In breve. Opera magna dell’horror con la Morte come tema comune, ambiziosa per non dire peggio (pretenziosa): 26 episodi di 27 (!) registi diversi in tutto. Il risultato non poteva che essere disomogeneo: alti e bassi, stili diversissimi tra loro, idee folli, gusto di shockare molte volte fine a se stesso e continue alzate di sopracciglia indotte nello spettatore ogni minuto e mezzo circa. Dedicato a certi amanti dell’horror, e nemmeno a tutti.

ABCs of Death è un’antologia horror con 26 corti in tutto, diretto da 27 registi di 15 paesi diversi: con un budget risicatissimo ed una semplice lettera dell’alfabeto da gestire come titolo. E non poteva che risultare che fosse A for Apocalypse, ovviamente. I corti si accatastano uno dietro l’altro e già dopo circa metà visione il risultato complessivo appare decisamente contraddittorio. Se è vero che ci sono almeno sei o sette episodi sopra le righe, parecchio dei contenuti del film appare sconnesso, sperimentale all’estremo, a volte autoreferenziale: inevitabile, se decidi di frammentare il budget tra i vari registi dando loro massima libertà espressiva, a patto di mantenere la narrazione legata alla morte. Scelta ovviamente adeguabile all’horror con facilità, sulla carta, per quanto poi a ben vedere alcuni corti non siano nemmeno propriamente horror, e si alternino splatter orientali anche abbastanza gratuiti con corti animati e humor nero alla Postal.

Tra i fatti curiosi legati al film, un’insegnante statunitense (Sheila Kearns) è stata condannata nel 2013 per aver mostrato questo film durante una lezione, in quanto “materiale osceno”, in seguito alla denuncia di una studentessa shockata dalla visione (e molti ragazzi lo trovarono eccessivo e troppo spaventoso). Secondo la linea sostenuta dalla difesa, del resto, l’errore sarebbe stato involontario poichè l’insegnante non aveva visionato il film prima di proporlo in classe. Questa prima antologia di cortometraggi rientra proprio nei prodotti da non visionare a cuor leggero, in quanto produce un effetto spiazzante sul pubblico abituato al lato folkloristico dell’horror. Questo è quello che succede a lasciare carta bianca a dei registi horror, se preferite: le gradazioni narrative sono diversissime, a testimonianza di un genere che è tutt’altro che morto, ma l’accostamento può risultare addirittura nauseante come lo sarebbe la lettura di pagine frammentarie di libri diversi pescati a caso.

Gli episodi a mio avviso più validi sono sottolineati. A fine di ogni micro-recensione, ho inserito un film “di riferimento” perchè possiate vedere solo quello che vi interessa, in caso.

A – Apocalypse (Nacho Vigalondo). Considerato uno dei migliori della serie, ha a mio parere – semplicemente – la fortuna di capitare con la lettera A: un po’ scontato, un po’ gratuito e forse poco verosimile, va contestualizzato nel titolo perchè ne possa risaltare il nichilismo di fondo. Una sorta di riassunto veloce ed approssimativo di un film alla The Divide, che ho trovato appena accettabile, e che presenta l’esitazione di lei, aspirante assassina vagamente imbranata, come l’aspetto più interessante del film.

B – Bigfoot (Adrian Garcia Bogliano). Slasher horror di vecchia scuola, con protagonisti una coppia – lui e lei – stereotipata e grottesca (e tutto sommato divertente), una bambina silenziosa e un misterioso netturbino. Il finale sembra ricalcare un po’ troppo il già visto, ma sono le regole del genere, francamente difficili da stravolgere. Divertente, se apprezzate Venerdì 13 e compagnia.

C – Cycle (Ernest Diaz Espinoza). Inizia come un thriller, ma poi si incentra sui paradossi spazio-temporali modello Ai confini della realtà. È la storia di un uomo che si ritrova in casa il proprio gemello che, a quanto sembra, alla fine lo sovrasta e lo sostituisce. Per gli amanti di film alla Vacancy. Una trama del genere avrebbe forse meritato qualche dettaglio extra ma data la situazione generale, rimane da apprezzare.

D – Dogfight (Marcel Sarmiento). Combattimento clandestino girato interamente in slow motion tra un uomo e un cane (il suo!), come condizione per poterselo riprendere. Impressionante e suggestiva la sequenza della lotta, possibile tributo alle scene di azione di Thriller – en grym film: tra i più “tarantiniani” della serie, presenta pure un discreto twist finale.

E – Exterminate (Angela Bettis). Episodio in puro stile Creepshow e  (ancora una volta) Ai confini della realtà, è uno dei momenti più incisivi e puramente horror dell’antologia: un ragno va a fare visita ad un uomo, nascondendosi ogni volta nel modo più impensato. Ottimo equilibrio tra tensione ed interpretazione, per quanto la storia sia davvero molto essenziale.

F – Fart (Noboru Iguchi). Dal regista di Machine-Girl (2008) abbiamo uno dei titoli più deliranti e “massacrati” in assoluto: come in Kentut, si incentra sul peto (sic) e – in questo caso – ne trae spunto per creare un’assurda parodia trash. Che un corto del genere trovi posto in una antologia horror tendenzialmente seriosa è, a suo modo, inconcepibile, ma tant’è: la libertà espressiva è anche questo, e nessuno dei registi sapeva cosa avrebbero fatto i colleghi, del resto. L’idea sarebbe a tratti divertente: vediamo un gruppo di studentesse ossessionate dalle flatulenze, in particolare una – la quale prova un amore platonico verso la propria insegnante. La fine di tutto non poteva che arrivare mediante una letterale scoreggia del pianeta terra, così la protagonista decide di morire a modo proprio. Il linguaggio di Iguchi risulterà semplicistico (per non dire infantile), rendendo scomposta la narrazione, delirante, puramente autocelebrativa.

G – Gravity (Andrew Traucki). Il corto è girato interamente in soggettiva e mostra un surfista che usa qualcosa tipo una Go Pro per andare al mare, riempire lo zaino di mattoni, andare al largo ed annegare scientificamente, in nome della forza di gravità del titolo. Concettualmente il corto funziona, per quanto le riprese non rendano giustizia al concetto.

H – Hydro-Electric Diffusion (Thomas Cappelen Melling). Il corto più fantasioso e – se vogliamo – “artistico” della serie, che riprende un’ambientazione da seconda guerra mondiale e gioca sulla contrapposizione tra un aviatore (probabilmente americano) ed una starlette di avanspettacolo (che si rivelerà una nazista in incognito). Particolarità del tutto, gli attori sono vestiti da animali antropomorfi (un cane ed una volpe) in stile furry, mentre il tono è quello scanzonato dei comics, con le loro esagerazioni tipiche. Ridotto a film, Le nove vite di Fritz il gatto  in versione slapstick sarebbe stato pressappoco così. Un plauso al regista per aver ricevuto una lettera così ingrata e non aver fatto un corto ambientato in un hotel (il titolo significa “circolazione idro-elettrica“) ed averlo saputo gestire in modo così originale.

I – Ingrown (Jorge Michel Grau). Il titolo significa innato, incarnito, congenito: soffre un po’ dello stesso difetto della lettera A, finisce per diventare poco chiaro dal punto di vista narrativo, ma appare leggermente superiore come qualità. Sono i dettagli, chiaramente, a fare la differenza (entrambi i protagonista hanno un anello nuziale). Horror concettuale ed emblema del genere, anche perchè ricalca dinamiche narrative tipiche del genere.

J – Jidai-gechi (Yudai Yamaguchi, “film di samurai”). Quello di Yamaguchi è il piccolo capolavoro di “The ABCs Of Death”, capace di trattare il tema della morte senza eccedere nelle stupidate di Fart e nel non mostrare di Gravity. Rappresenta un seppuku in chiave grottesca: la Morte si pone davanti ad un personaggio e, liberandosi dell’aria seriosa che da sempre la accompagna, ci fa letteralmente le boccacce (con effetti splatter degni di Society). Pochi istanti, ed è tutto finito: dulcis in fundo, la citazione del finale di Profondo rosso. Uno dei corti che vale davvero la pena vedere.

K – Klutz (Anders Morgenthaler). Cartone animato ambientato interamente in un bagno (il titolo significa “goffo”): una donna si trova a lottare contro una singolare “entità” fuoriuscita dal water. Il finale è un delirio: corto tutto sommato divertente.

L – Libido (Timo Tjahjanto). Episodio molto crudo (un contest di masturbazione – sic – in cui chi finisce per secondo muore in modo cruento), sulla falsariga di film come Gorotesque, a cui il regista sembra essersi ispirato parecchio. Se già i dubbi fioccavano su quello, figuriamoci qui: a poco vale il tentativo di creare un contesto (le mascherine grottesche dei consueti ricchi perversi che finanziano lo show): quello che resta dal punto di vista narrativo è uno splatterone come tanti, senza troppe pretese, che crea più disagio nello spettatore che paura.

M – Misscarriage (Ti West). Episodio di neanche un minuto, dello stessa regista dell’interessante House of the devil: qui sembra voler svolgere il “compitino” nel modo più sbrigativo possibile, tanto che meraviglia la firma dietro al lavoro (si trovano decine di corti del genere su Youtube, che vari misconosciuti registi hanno realizzati quasi meglio). Il concept di fondo è ovviamente shockante, e l’ultima rivelazione realmente spaventosa. Un saggio sperimentale tra il genio e la pigrizia, certamente non tra gli episodi migliori della serie.

N – Nuptials (Banjong Pisanthanakun). Inizia come una commedia sentimentale, arriva il colpo di scena (neanche malissimo, per la verità), ma il sangue finale e l’horror c’entrano come i cavoli a merenda, e risultano una vaga forzatura.

O – Orgasm (Helene Cattet e Bruno Forzani). Il progetto coinvolge anche due registi molto apprezzati come Forzani-Cattet (Amer, Laissez bronzer les cadavres): la suggestione non manca e probabilmente il punto di vista narrativo può funzionare, ma anche qui siamo piuttosto lontani dall’horror (a meno che, ovviamente, non si voglia intendere l’orgasmo come la petite mort, la piccola morte). La sequenza è singolare e molto ben girata, ma ad un certo punto si perde in virtuosismi che – a mio avviso – risultano poco focalizzati.

P – Pressure (Simon Rumley). Girare un corto dal titolo “Pressione” in questi termini – con un’unica, terrificante sequenza finalmente che spiega implicitamente il senso di quella pressure – è geniale quanto traumatizzante (il riferimento è ben spiegato in film come Giù le mani dai gatti). Cosa saremmo disposti a fare per i nostri cari? In un contesto urbano dei bassifondi tutto farebbe pensare alla prostituzione, ma con grande sorpresa dello spettatore non sarà così. E non tutti coglieranno.

Q – Quack (Adam Wingard). Wingard (You’re next) e Barrett (rispettivamente regista e sceneggiatore) iniziano il proprio corto, in maniera caotica, mostrando una donna seminuda che urla a casaccio davanti allo schermo verde del chroma key. Ovviamente tutti sotto l’effetto di cocaina: girato come un falso documentario, Quack è senza dubbio uno degli episodi più originali dell’antologia. Tormentati dal non avere idea di cosa filmare con la Q – effettivamente una lettera disgraziata – ed approfittandone per omaggiare (o sfottere simpaticamente) qualche collega, i due arrivano alla conclusione di filmare la morte di un’anatra. La morte di animali veri, oltre ad essere accennata nell’episodio precedente, è alla base delle controversie di film come Cannibal Holocaust, per cui è chiaro l’intento grottesco-parodistico. Lo scambio di battute “non deve soffrire tanto! Vero, è arte, non è uno snuff!” rivela infine la natura del lavoro: mostrare gli stereotipi sugli addetti ai lavori dell’horror, dipinti come una massa di maniaci sessuali drogati, con nessuna competenza in fatto di arte. La tragicomica conclusione è degna di un episodio di South Park, da cui Quack eredita in gran parte lo stile graffiante.

R – Removed (Srdjan Spasojevic). Uno dei più brutali della serie: un ospedale pratica rimozioni chirurgiche di pezzi di pelle su una cavia umana, i quali diventano – immersi in soluzione – pezzi di pellicola. La metafora è chiara, ancor più per chi conosce A serbian film, e quando vediamo quest’ultimo che riesce a fuggire, fino ad arrivare a spingere un treno con le proprie forze (immagine un po’ criptica, che a me ha suggerito L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat: emblema del cinema?). Il paziente, alter ego del regista, o comunque immagine di un “fenomeno da baraccone” suo malgrado come potrebbe esserlo Elephant Man, sembra suggerire più un trailer che un corto vero e proprio: a parte questo, è girato splendidamente, e da’ una certa soddisfazione.

S – Speed (Jake West). Ha il pregio di essere uno dei pochi corti dalla forma realmente compiuta, carico di un simbolismo più chiaro della media, e girato con due stili diversissimi tra loro. Cita apertamente i road movie classici, per poi catapultarci in una dimensione diversa. Questo, se servisse dirlo, gioca solo a suo favore: nel contesto di un’antologia “spezzatino” come questa, rischia di farsi apprezzare poco.

T – Toilet (Lee Hardcastle). Spassosissimo cortometraggio realizzato in claymation (animazione di pupazzi di plastilina in passo uno), caratterizzato da macabro humor nero che evoca sia il precedente Bigfoot che il cartone Klutz. Anche qui, si tratta di un water che nasconde delle macabre sorprese: questo corto ha vinto il contest indetto per scegliere il 26° regista da mettere in lista.

U – Unearthed (Ben Wheatley). Mancava all’appello un episodio sui vampiri, ed è la volta di questo corto di Wheatley: come già in Gravity, si opta per il POV dal punto di vista di un non-morto. L’idea sarebbe stata più accattivante, in effetti, se solo fossero stati inseriti più elementi nella storia, che invece è possibile riassumere in una singola frase. Non male, ma ancora una volta troppo stringato per lasciare qualcosa di concreto allo spettatore.

V – Vagitus (Kaare Andrews). Incursione nel post apocalittico che tende a lasciare il tempo che trova, anche perchè riprende temi già visti / sentiti troppe volte. Visivamente sarebbe quasi pari ad un Terminator modernizzato, ma scorre troppo velocemente perchè si riesca ad apprezzarlo appieno. L’esasperazione da parte di un governo futuro per il controllo delle nascite, in breve, e le sue brutali conseguenze sono filtrate dagli occhi di un’agente donna: questo è quanto. Predilige la forma horror su quella sci-fi, ma alla fine – anche qui – non rimane granchè della visione.

W – What The Fuck (Jon Schnepp). Delirio art film coloratissimo e psichedelico, in cui il regista, sulla falsariga di Quack, realizza un falso documentario sulla realizzazione del proprio corto animato. Mentre sta passando in rassegna una lista di parole con la W, arriva in TV la notizia di scie chimiche colorate (sic) e clown zombi (sic) che starebbero divorando la popolazione. WTF, per l’appunto. Il resto è una sequenza di parole ed immagini splatter quasi del tutto prive di senso logico, al netto del riferimento alla tipica profezia che si autoavvera.

X – XXL (Xavier Gens). Anche il regista francese del succitato The Divide ha avuto la propria parte in questa interminabile sequenza di horror. La protagonista, tormentata da chiunque le passi vicino per via del proprio peso, divora nervosamente qualsiasi cosa trovi in frigo, per poi passare ad un “metodo” artigianale per togliere il grasso di troppo. Horror organico ed autolesionista come solo il regista di Frontiers avrebbe potuto: fa riflettere, nonostante il disgusto delle sequenze.

Y – Youngbuck (Jason Eisener). Girato come un videoclip, dal quale eredita la durata misera, è un film decisamente essenziale incentrato su un bidello pedofilo. Con qualche minuto extra sarebbe stato un revenge movie all’altezza, messa così è meno significativo.

Z – Zetsumetsu (Yoshihiro Nishimura). Altro agglomerato un po’ casuale di citazioni, corpi nudi a casaccio, naziploitation, amore saffico (?), il dottor Stranamore di Kubrickiana memoria (sic) e tanto, troppo altro. Forse sulla falsariga di film come Tokio Gore Police, a mio parere con varie debolezze di fondo a livello narrativo: lascia il tempo che trova, ma resta un buon esercizio di stile e conclude degnamente un’antologia che non coglie del tutto nel segno.

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