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La cosa meno interessante di “The Shock Labyrinth” di Takashi Shimizu è che è girato in 3D

Un gruppo di amici d’infanzia si ritrova dopo diversi anni: nel giorno del rientro di Ken (allontanatosi per via della morte della madre) compare sulla scena anche Yuki, scomparsa in circostanze misteriose e ritenuta morta. La realtà si svelerà lentamente agli occhi dei ragazzi attraverso un incubo surreale e sconnesso…

In due parole. Uno dei più noti registi di horror nipponici – suoi il popolarissimo “Ju-on – The grudge” ed il capolavoro Marebito – si cimenta in una trama non trascendentale, che sembra prendere vagamente spunto da “Il tunnel dell’orrore” di Hooper per poi declinarsi in una serie di sequenze sconnesse, surreali e molto suggestive. Sarebbe stato un gran film, se non fosse che il finale finisce per perdere clamorosamente mordente: eppure i presupposti per considerare “The Shock Labyrinth: Extreme” un ennesimo buon horror c’erano tutti, e l’uso del 3D è uno dei meno interessanti. Nella media.

Le stroncature che ho avuto modo di leggere sul questo lavoro di Shimizu mi avevano lasciato piuttosto perplesso, a confronto del livello di presentazione della pellicola stessa: di fatto il film si è rivelato di gran lunga superiore alle aspettative terrificanti (in senso negativo) che mi era capitato di leggere e, di fatto, con vari spunti di interesse. Prima di tutto il fatto di utilizzare uno spazio orrorifico dichiaratamente finto – il tunnel dell’orrore di un luna park – come ambientazione di eventi reali di sangue (una scelta che finisce per strizzare l’occhio ad un classico di Tobe Hooper, senza pero’ citarlo esplicitamente); successivamente  l’utilizzo del 3D, che viene sfruttato non per produrre inutili virtuosismi bensì per conferire una spazialità espansa agli spazi claustrofobici ed oscuri presentati. A questo si aggiunge uno sviluppo di trama (per quanto davvero molto semplice) sviluppata in flashback e flashforward spiazzanti ma mai pesanti, capaci di accompagnare la visione dello spettatore senza fargli mai perdere un minimo di punto di riferimento.

A questo si deve aggiungere – e sarebbe ingiusto non dirlo – il ritorno dell’horror ad una dimensione quasi favolistica: una sorta di racconto del terrore, di leggenda metropolitana, il che suona inevitabilmente già sentito (il passato oscuro dei protagonisti, il rimorso simboleggiato dalle allucinazioni dei protagonisti, i manichini come metafora delle persone che non possono darci più nulla – scelta che finisce per evocare il corto Still life) ma, al tempo stesso, è meno banale di quello che possa sembrare a prima vista. The Shock Labyrinth, il labirinto: esso rappresenta sia la condizione mentale dei protagonisti (che hanno rimosso un ricordo terribile della propria infanzia, che faticano a ricordare) che il luogo in cui fisicamente essi si ritroveranno, realizzando così un viaggio onirico e surreale (a tratti diremmo quasi lynchiano) nei corridoi e nelle stanze della memoria, dei ricordi e della mente più in generale.

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Del resto l’incipit del film ci ricorda, mediante una voce fuori campo, quanto sia singolare il funzionamento delle sinapsi, che mediante qualche meccanismo oscuro ci fanno riemergere dalla memoria ricordi che credevamo di aver eliminato per sempre: il messaggio che passa, in qualche modo, è che il passato ritorna sempre e che non vi è modo di cancellare i ricordi dolorosi, dato che essi fanno parte del nostro essere fino alle estreme conseguenze. Nulla di particolarmente nuovo o “acrobatico”, intendiamoci, ma se l’idea è questa e la trama – per quanto semplice – viene sviluppata con stile, mediante trovate orrorifiche azzeccate e molto visionarie (la testa della ragazza che esce fuori dal coniglio di peluche in primis) e con interpretazioni tutto sommato nella norma del genere, non possiamo dire – o scrivere – in piena coscienza di aver visto un brutto film. Un lavoro che poteva essere migliorato, questo senza dubbio, a partire da un casting un po’ più incisivo e qualitativamente più convinto, ma certamente non da stroncare in toto come quasi tutti – secondo me a torto – hanno scritto.

Takashi Shimizu non è un regista da sottovalutare e lo ha dimostrato, prima che con Ju-on (che ha avuto il merito di essere molto ben marketizzato e marketizzabile, a prescindere dalle sue qualità effettive) e poi con Marebito; un cineasta horror risaputamente estraneo al modo “occidentale” di raccontare, ma forse – anche qui – con qualcosa di più da esprimere. Valutarne i meriti senza fare queste considerazioni o, se preferite, solo in relazione alle sue opere più note – solo in quanto tali – appare certamente carente dal punto di vista della completezza.

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