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Storie horror di segregazione: “The Woman” (A. van den Houten, 2011)

Una giovane donna vive nella foresta senza aver mai avuto contatti con la società moderna; catturata da un padre di famiglia dall’aspetto mite verrà inserita nel nucleo familiare…

In breve. Un film incentrato sulla violenza domestica e la contrapposizione tra la  feroce vitalità del “selvaggio” e l’ipocrisia della società civilizzata. Temi non originalissimi, regia non esaltante (ma non per questo sgradevole) e qualche problema di ritmo: come intreccio, probabilmente più da leggere nel romanzo da cui è tratto che da vedere.

Una donna allo stato selvaggio, un padre autoritario e maschilista, un figlio adolescente candidato ad emularne i comportamenti, una figlia affetta da turbe depressive, una moglie remissiva e psicologicamente repressa e, per chiudere in bellezza, una bambina ancora non intaccata dall’atmosfera circostante: questi gli ingredienti basilari di “The woman“, la storia di una famiglia che decide di “adottare”, allo scopo di civilizzarla, una giovane selvaggia cresciuta nelle foreste della zona. È da tali presupposti quasi “fiabeschi”, in fondo, che si riesce a sviluppare un horror di discreta qualità, caratterizzato – per quanto il soggetto sia validissimo – da una notevole lentezza nella parte iniziale. Il film finisce per decollare soltanto negli ultimi venti minuti, perdendosi nel resto tra accenni, divagazioni e caratterizzazioni dei personaggi a volte neanche troppo funzionali. Il tutto è tale da rendere desiderabile quasi l’esclusiva visione dell’ultima parte del film, che riserva tra l’altro qualche sorpresa niente male (per quanto poco chiarita nella sua origine). Van den Houten non ama esplicitare i dettagli – come invece aveva fatto Gregory Wilson in The girl next door, con cui “The woman” condivide lo stesso autore del soggetto (lo scrittore horror Jack Ketchum), e preferisce far scorrere la storia come se si trattasse di un film da prima serata.

Cosa che “The woman” non è, visto che si tratta di una pellicola di explotation che non lesina affatto in termini di violenza fisica e mentale, sempre da parte di individui di sesso maschile sul gentil sesso (le accuse di misoginia, in questo caso, lasciano veramente il tempo che trovano, visto che è proprio quello il focus che il film critica aspramente). Senza gli eccessi del cinema di genere il regista preferisce optare per un formato da serie TV, senza spettacolarizzare alcunchè (ed avrebbe dovuto farlo, in certi casi), senza esagerare nelle efferatezze (caricarle serve spesso a potenziare il potenziale catartico della pellicola) e con il rischio di risultare inferiore alle aspettative; questo nonostante il tema forte e molto “appetibile” per un film dell’orrore. Si sviluppa così una storia ambientata nella provincia americana, nella quale un nucleo familiare dall’aspetto ordinario nasconde degli orribili segreti: roba già vista, già sentita, dispiace ma è così. Per quanto l’intreccio sia comunque originale e di livello – merito esclusivo di Ketchum, quest’ultimo – il film soffre di un‘eccessiva diluizione dei dettagli: il tempo che intercorre tra la cattura della ragazza e la conclusione del tutto sembra interminabile, e questo è dovuto anche ad uno dei “cattivi” meno credibili mai comparsi su uno schermo.

Per quanto gli sguardi di Sean Bridgers e Belle Cleek (gli insipidi coniugi, non certo i due folli del cult La casa nera) siano pressappoco azzeccati, e le loro caratterizzazioni incalzanti, Chris risulta a mio parere uno degli psicopatici meno adeguati mai visti su uno schermo. Non ci voleva un Hannibal Lecter riveduto e corretto nè un novello Henry (mammagari!): bastava considerare un’interprete più in grado di mostrare la natura ambigua del personaggio, sospeso tra battute di caccia, cene in famiglia e stupri perpetuati come se nulla fosse. Invece l’impeccabile professionista mantiene sempre la medesima espressione anonima, sia che si tratti di compiere efferatezze che quando debba lavorare in ufficio: questo finisce per nuocere alla forma del film e, con tutti i limiti del caso, anche per ridimensionarlo di diverse spanne. Decisamente pià credibile, per fortuna, la performance di Pollyanna McIntosh, eroina totalizzante della storia, molto capace di conferire l’adeguata natura selvaggia al proprio personaggio.

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Tratto dal romanzo omonimo di Jack Ketchum (l’autore del soggetto di The girl next door), “The woman” sembra esaltare l’istinto selvaggio, quello che buona parte della civiltà moderna tenta di reprimere anche a costo di segregarlo, incatenarlo e procurargli del male fisico: quest’ultima, in reazione, finisce per proporre un modello comportamentale – trasmesso di padre in figlio – paradossalmente peggiore di quello della giungla (una contrapposizione, quest’ultima, sviluppata nel celebre “Cannibal holocaust” di Deodato già nel 1979), di quelli che finiscono per mettere tutto orribilmente sullo stesso piano. Non ci sono dubbi, inoltre, che i presupposti da cui parte questa pellicola di Andrew van den Houten – la dinamica della segregazione di un individuo è in parte simile a quella di Paura dei Manetti Bros. – siano quelli di presentare e far discutere tematiche dichiaratamente spinose (patriarcato e sessismo su tutte), e questo – come illustrano casi simili quali A serbian film, Strange circus o Frontiers – risulta essere un autentico campo minato. Potenzialmente si tratta dei lavori a maggior potenziale artistico e qualitativo, ma questo rimane realistico solo quando si riescano a bilanciare forma e contenuti: il film di Gens, ad esempio, aveva mostrato quanto una pellicola in cui si vogliano forzare significati politici – ergo più contenuti che forma – possa risultare dispersiva e parzialmente fuori bersaglio. In questa specifica circostanza si può dire invece che la priorità del regista sia stata, più semplicemente, quella di raccontare una inquietante storia di orrore quotidiano, lasciando sottintese le letture (e scatenando le ire di chi invece si aspettava maggiori focalizzazioni). Questo, se vogliamo, è anche il modo giusto di approcciare quando non si disponga di idee e budget troppo dispendiosi/e: non basta pero’ a fare un buon film (cosa che secondo me “The woman” è solo al 70%), per quanto serva a realizzare un discreto prodotto low-budget da visionare più che altro per curiosità.

“Cosa ne facciamo di lei? La addestreremo, la renderemo… civile.”

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