Black Christmas: horror natalizio di culto, a cura di Bob Clark
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Un uomo senza volto sale nell’attico di un convitto femminile mentre le inquiline festeggiano il Natale; iniziano ad arrivare telefonate minacciose…

In breve. Un buon thriller, molto originale ed atipico per l’epoca e che sembra quasi riduttivo definire proto-slasher: molti degli “ingredienti” tipici di altri film di successo sembrerebbero nascere qui, ma c’è tanto di più. Da vedere, considerando soprattutto il periodo, il meccanismo narrativo ed il notevole “gioco d’anticipo”.

Girato da Bob Clark in soli 40 giorni e scritto da Roy Moore, “Black Christmas” è atipico anzitutto nella forma: avrebbe infatti dovuto essere più esplicito nelle scene clou, ma rimane invece quasi sempre sul non detto, sull’accennato, su riferimenti oscuri, rumori nell’oscurità, parole biascicate ed incomprensibili, scenari che fanno paura anche (e forse soprattutto) perchè vuoti ed oscuri, giochi di sguardi che sembrano risolversi e poi svaniscono. Addirittura, Natale rosso sangue sembra quasi prendersi gioco delle sensazioni vissute dello spettatore, mostrandogli quasi in faccia il profilo del killer e riuscendo a smentirne l’identità, in modo credibile (ovviamente per un horror, specialmente dell’epoca) ed altrettanto inquietante.

In tal senso il film è un crescendo di grandissimo livello, diretto magistralmente ed interpretato ancora meglio, verso un finale a sorpresa (tra i più shockanti della storia, direi) degno di un cult come Sleepaway Camp – con la differenza che qui la sostanza è più corposa, nonostante il film sia di molti anni prima. Trasmesso dal canale televisivo NBC col titolo “Stranger in the House“, pare venne addirittura interrotto durante la messa in onda perchè considerato eccessivo per la TV d’epoca: il sangue, per la verità, è dosato con grande parsimonia, ed è più il riferimento al “non detto” a renderlo autenticamente spaventoso.

In uno scenario di personaggi tutti ben caratterizzati, in cui più di uno pare covare rabbia repressa o, quantomeno, sembra avere almeno uno scheletro nell’armadio, il killer può nascondersi facilmente, mimetizzarsi e rendendo poco agevole la sua identificazione perchè – forse qui per una delle prime volte nel cinema – si muove e lavora esclusivamente in soggettiva. Del resto, anche quando la vicenda sembra essersi risolta arriva la sterzata a sorpresa, che sorprenderà lo spettatore ancora oggi (e non sono molti) disposti a farsi raccontare una fiaba nera di buon grado. Da un punto di vista prettamente narrativo, Black Christmas è altrettanto interessante, in quanto il riferimento alla festività stessa è solo incidentale, ed è stato utilizzato solo per via del grottesco contrasto tra il “nero” ed il Natale (inteso forse come “natalità”, “paura della nascita”, e quindi morte). A questo si aggiunga un dettaglio ancora più interessante, legato al fatto che la storia stessa è liberamente tratta da Moore sia da una catena di omicidi realmente avvenuti nel Quebec nel periodo di Natale, che da una leggenda metropolitana che circola dagli anni 60, nota come “The Babysitter and the Man Upstairs” (e che non è il caso di andarsi a leggere prima di aver visto il film, ovviamente). Se oggi basare un film su storie insolite a cui i media finiscono per dare credito può sembrare scontato (gli esempi passati non mancano: basti pensare al fatto di cronaca che ha ispirato Nightmare, oppure alla più recente serie di film V/H/S), bisogna riconoscere che l’idea di Clark per l’epoca – primi anni ’70 – è stata davvero originale e decisamente vincente.

L’unico sostanziale difetto del film, visto oggi, è forse legato alla sua scarsa “commerciabilità”, che l’ha reso un oggetto cult di nicchia per appassionati – lasciando l’assassino stesso, al contrario dei vari merchandising di Jason o Freddy, sostanzialmente non rappresentabile; ma non è detto, in questo caso, che si tratti di un vero difetto. La singolare soggettiva del killer, che non si vedrà praticamente mai, oltre ad essere un archetipo di parecchio slasher ed orrore in generale (tipicamente argentiano o carpenteriano, per citarne due) è utilizzato da Clark per esplicitarne i deliri solitari, i soliloqui sconnessi affiancati alla più classica voce minacciosa al telefono. Oltre a questo, bisognerebbe ricordare le disturbanti sequenze con lo stesso assassino (che culla il cadavere della prima vittima con in braccio una bambola), ne mostra una natura duplice, o addirittura multipla. Le motivazioni rimangono comunque pesantemente ambigue fino al clamoroso doppio finale, e questo potrebbe scontentare gli spettatori amanti dei gialli razionali e “calcolati”, facendo al tempo stesso la gioia degli amanti del dettaglio inspiegato alla Inferno di Argento, per intenderci.

Per esasperare l’effetto spaventoso, e probabilmente renderlo poco riconoscibile – la voce del killer venne interpretata (al telefono) da tre persone diverse: dal regista, da un attore (Nick Mancuso) e anche da un’attrice del cast (probabilmente Ann Sweeny, almeno stando ad una recente testimonianza di Mancuso stesso). Appare chiaro quanto questo film, peraltro non troppo popolare fino ad oggi, possa avere influenzato sia Dario Argento nella filmografia degli anni successivi che (direi soprattutto) John Carpenter per il suo Halloween. Se poi il killer protagonista è feroce quanto difficile da definire ed individuare, tanto da sembrare un Michael Myers ante-litteram, è altrettanto facile cogliere il riferimento politico al tema dell’aborto (una delle potenziali vittime ha deciso di abortire, ed i sospetti ricadono sul fidanzato che non è d’accordo), trattato qui in modo a mio  avviso piuttosto “politico” – tanto da indurre a credere che l’assassino sia una sorta di moralista ossessionato dal tema.

Tra le curiosità inattese, pare che questo fosse l’horror preferito di Elvis Presley, che lo guardava ad ogni Natale – e, a quanto pare, la sua famiglia continua a farlo in suo ricordo.

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