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XX è l’horror al femminile da non perdere

XX è un’antologia di quattro cortometraggi horror, visti dal punto di vista di una protagonista femminile. I quattro lavori sono intervallati dall’artista messicana Sofia Carrillo, ed utilizzano la tecnica della stop-motion per mostrare una bambola che si muove ed esegue azioni surreali all’interno di una vecchia casa.

In breve. Antologia di corti con regia e protagoniste femminili, di cui uno realmente sopra le righe e gli altri tre nella media. Qualcuno ha scritto che XX cerca di dire qualcosa senza sapere cosa: è una cattiveria gratuita, in realtà, perchè non considera che lo scopo (evidente) è quello di raccontare quattro figure femminili forti ed emancipate. Per l’horror è tutt’altro che una novità, ma tutto sommato (e forse proprio per questa riaffermazione) l’esperimento è da considerarsi riuscito. Storie e recitazione di buon livello, ma un senso di incompiutezza aleggia soprattutto su alcuni episodi.

In generale, credo che ci siano critiche sensate e critiche gratuite: per mia natura non sopporto le secondo, ma la maggiorparte delle critiche di cui ho letto su questo film, purtroppo, sembrano rientrare nella categoria 2. Si può dire molto su questo XX, e probabilmente avere qualcosa da ridire non tanto sul formato (che è spedito e gradevole, e ricorda in parte i fasti di certi Masters of horror) quanto sulla non-compiutezza di certi episodi, che sembrano finire quando dovevano iniziare (vale soprattutto per il primo). Il titolo del film, XX, fa riferimento ai cromosomi che determinano il sesso femminile nel nascituro;  il lavoro è dedicato alla memoria di Antonia Bird (nota per il film Ravenous di fine anni 90), che avrebbe dovuto partecipare e non ha fatto in tempo a farlo perchè scomparsa nel frattempo.

Che poi XX possa considerarsi confuso negli intenti o nel messaggio, come molta critica (soprattutto estera) ha scritto, mi pare una cosa fuori discussione: del resto l’horror vanta numerose protagoniste femminili solide e memorabili per cui è un sincero omaggio al genere (basterebbe pensare a Non aprite quella porta, Thriller, oppure in tempi più recenti il remake de La casa, La stanza delle farfalle e 31) ed è semmai interessante sottolineare che si tratta di regie al femminile, assolutamente all’altezza e con nulla da invidiare rispetto ad equivalenti maschili. Metterla su questo piano, pero’, sia pur nella nobiltà di intenti, rischia di fuorviare e farci precipitare nello stereotipo del “bene, brava, bis” giusto in onore alla riscossa femminile. Del resto XX è realmente strutturato con classe, e denota un considerevole talento registico; pecca comunque non tanto nella forma quanto nella vaghezza di alcuni episodi, problema in realtà tipico di molti cortometraggi del genere (che sembrano spesso avere “fretta” e non avere tempo nè voglia di approfondire cose che sarebbero, invece, state interessanti).

Chiarito questo, passo all’analisi dei singoli film.

LA SCATOLA (Jovanka Vuckovic)– Tratto da The box di Jack Ketchum (scrittore horror molto interessante e non troppo noto in Italia; dai sui libri è stato tratto il cruento The girl next door e l’interessante The woman); La scatola è la storia di un ragazzino che un giorno, in metro, chiede di vedere il contenuto di un pacco-regalo ad uno sconosciuto. Lo sconosciuto accetta e gli mostra il contenuto della scatola, alchè il ragazzo resta visibilmente turbato e da allora smette di mangiare, rifiutandosi di svelare cosa ha visto. Quello che potrebbe sembrare il banale capriccio di un ragazzino si rivela contagioso: scoperto il segreto della scatola, anche gli altir familiari ne rimarrano turbati. Ad assistere alla caduta la figura della madre, ben interpretata ma troppo poco delineata. Se l’anti-climax con cui si disegna la storia crea un palpabile senso di angoscia – del resto vedere i propri figli che scelgono di morire deliberatamente è un incubo concreto – dall’altro non è possibile non registrare un sostanziale senso di incompiutezza del tutto. Del resto, fatta eccezione per la grottesca sequenza del “banchetto”, ciò sembra legato allo stile di Ketchum, che a volte (specie nelle opere brevi) tende ad un certo ermetismo (basta leggere il suo Triptych per rendersene conto). Del resto, rispetto alla storia originale, è stato cambiato il punto di vista del protagonista (da padre a madre-centrico) ed alla fine si erge la figura della protagonista, che vorrebbe diventare iconica senza a mio parere riuscirci del tutto. L’oggetto The box, naturalmente, potrà diventare – a vostra discrezione – l’ennesimo McGuffin o un consueto come se fosse antani.

LA FESTA DI COMPLEANNO (Anne Clark – St. Vincent). Corto incentrato sul più classico humour nero, prende spunto dalla storia di una donna che scopre il suicidio del marito nel giorno del settimo compleanno della figlia. Tra situazioni paradossali, un senso di surreale forse poco credibile in certi momenti, la volontà di nascondere la tragedia ai parenti ed una soluzione al problema quasi perfetta, uscirà fuori la terribile verità? La festa di compleanno resta impresso nella memoria dello spettatore soprattutto per i suoi personaggi teatralizzati e, ancora una volta, per un’interprete femminile stavolta davvero memorabile, determinata e mai vittima delle circostanze. Humour cinico e grande stile, oltre ad una trama ricca di dettagli e situazioni tesissime: niente male, per quanto sia lontano dai lidi dell’horror puro.

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NON CADERE (Roxanne Benjamin). Due coppie si dilettano di escursionismo in una zona proibita, suscitando la feroce reazione di una sorta di demone-guardiano, essere dalla provenienza evidentemente antica, quasi lovecraftiano in tal senso, e che evoca l’idea che nessuno dovrebbe mai interessarsi di ciò che non deve essere svelato. Con un alone di mistero non indifferente, un modus operandi parassitario rispetto alla vittima ed un’atmosfera molto cupa, al di là dell’idea di omaggiare sinceramente un genere – lo slasher camp e l’infinito ad esso collegato – finisce per essere un episodio più forma che sostanza, oltre che il più breve (e probabilmente meno interessante) dei lavori proposti.

IL SUO UNICO FIGLIO VIVENTE (Karyn Kusama). In fuga da una vita con la madre Cora, il quasi diciottenne Andy vive un rapporto conflittuale con la stessa, anche perchè non ha mai conosciuto il padre; qualcosa, da tempo, sta cambiando il ragazzo. Convocata dalla preside per un atto violento nei confronti di una compagna di scuola, Cora capisce che dovrà fare i conti col proprio passato e svelare al figlio – che nel frattempo inizia a mutare anche fisicamente – la verità sulla sua nascita. La regista sa quello che fa, e produce probabilmente il migliore in assoluto dei quattro corti: come consistenza del lavoro, come idea di fondo (c’è qualcosa dell’atmosfera alla The Omen, ma anche cenni di psicosi alla Possession: mutatis mutandis, si traduce il conflitto emotivo come un qualcosa di autenticamente demoniaco), come ritmo, come atmosfera sinistra, come interpretazione (in più passaggi si avverte qualcosa della teatralità più epica, quella tipica del cinema di genere anni ’70) e per lo straziante e crudelissimo finale.

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