Probabilmente uno dei ritratti di serial killer più realistici mai realizzati nel cinema.
“Henry, pioggia di sangue” è un violentissimo tributo alle gesta di un efferato (ed immaginario, come specificato all’inizio) serial killer: il film è noto a molti fan di Nanni Moretti, che conoscono a menadito la sua opinione negativa a riguardo. In realtà la critica del regista italiano sembrerebbe rivolta non tanto al film, bensì alla critica sterili sullo stesso: un po’ improvvisata, un po’ vuotamente intellettualistica oltre che penosamente giustificativa (Henry descritto come il “buono”, francamente, è una favoletta per gli stessi bambini che non dovrebbero mai vedere l’opera).
Il film, girato nel 1986 ma uscito quattro anni dopo per problemi di distribuzione, viene presentata come una sorta di mockumentary in 4:3, nel quale osserviamo, sin dall’inizio, un taglio da film quasi amatoriale: ed il distacco dal canone è evidente perchè i protagonisti (tre in tutto) sono dei normali esseri umani che potrebbero far parte delle conoscenze di chiunque. All’inizio vediamo alternarsi scene statiche in cui viene ripreso il cadavere di qualche vittima (con quasi sempre il sottofondo delle urla della stesse), ed altre – dinamiche – che mostrano Henry che finisce di mangiare, spegne una sigaretta, viaggia in auto. Intuiamo subito la sua natura omicida e perversa: Henry appare normale, gelido, ma anche dotato di un certo spessore psicologico, tanto che il suo salutare la cameriera del ristorante con la confidenza di un vecchio amico fa quasi paura di per sè.
Conosciamo quindi la mite Becky, che ha appena divorziato dall’ex-marito ed è tornata a casa del fratello, l’apparentemente rassicurante Otis, amico dello psicopatico Henry.
Il resto del film si sviluppa nei termini del “triangolo” di conoscenza instaurato dai tre: Henry di aver ucciso la propria madre per via dei maltrattamenti che subiva, la ragazza riconosce vari punti di contatto con la propria infanzia, visto che il padre cercava di violentarla. I presupposti per una morbosa empatia tra i due, quindi, ci sono tutti. Nel frattempo scopriamo che la natura di Otis non è certo meno crudele di quella del protagonista: impiegato ad una pompa di benzina, l’uomo si mostra cinico, approfittatore, scansafatiche e, come se non bastasse, dedito al traffico di droga. E, come se non bastasse Henry, Otis usa uccidere senza un perché, compiacendosi del gesto e quasi dimenticandosene qualche istante dopo.
Dopo la rottura della TV di casa i due si decidono a procurarsene una low-cost, utilizzando metodi decisamente spiccioli e poco convenzionali (la famosa scena dello schermo prima sfracellato in testa della vittima, e successivamente attaccato alla presa di corrente!). Sul posto i due maniaci si procurano una telecamera con la quale filmeranno le proprie gesta, e lo spettatore le vedrà attraverso il formato – ancora più sporco dell’originale – di un vero apparecchio amatoriale. La scena conclusiva, o meglio gli ultimi 10-15 minuti del film, con un crescendo insostenibile di tensione alimentata dalla gelosia che l’incestuoso Otis nutre contro l’amico, sono momenti insani e crudeli, destinati a rimanere impressi nella memoria degli spettatori.
Questo film contiene inoltre una trappola, un qualcosa che lo rende veramente spaventoso e meritevole a pieni titoli del “cult” che gli è stato affibiato: a parte la solida regia, l’ottima scelta dei tempi (il film dura un’ora e un quarto circa) e la caratterizzazione precisa dei personaggi, vi è uno degli inganni più subdoli visti in un film del genere. E’ scontato pensarci alla fine, ed ovviamente la cosa credo sia soggettiva, ma posso garantire che qui nulla è quello che sembra e che, in un certo senso, “più le cose cambiano più restano le stesse” (citazione carpenteriana per un film che eredita parte del feeling cinico anche da Distretto 13 – Le brigate della morte).
In altri termini l’identificazione spontanea che il pubblico effettua con Henry – ci sono “cascato” anch’io, la prima volta che l’ho visto – sembra architettata dal regista per fare scalpore alla fine, concludendo il film nel modo meno rassicurante possibile: quindi abolizione dei finali consolatori, perchè Henry potrebbe essere in mezzo a noi.
A confronto l’Hannibal de “Il silenzio degli innocenti” sembra una storiella senza spessore, ed è tutto un dire: il realismo di Henry rinuncia a qualsiasi pretesa di liricità della figura del killer, rappresentato in tutta sua crudele efficacia. “Henry…” è anche zeppo di macabri dettagli, di violenza inaspettata (una delle decapitazioni più crude e realistiche ma viste) e di un lugubre pessimismo di fondo: eppure i momenti in cui la coppia visiona in una stanza il violentissimo snuff sul divano, quasi come fosse la replica del loro programma preferito, o comunque l’idea stessa che i due riescano a compiere massacri senza che la sorella si accorga mai di nulla, fa sorridere anche se, a dirla tutta, si tratta di uno humor nero che non tutti potranno cogliere. Un film che, non lo nascondo, stavo per rivedere una seconda volta di fila dopo aver terminato la prima – ed è un caso davvero raro, per questo.
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