Il giorno del venerdì santo: una delle migliori interpretazioni di Bob Hoskins

Harold Shand è il potentissimo boss della criminalità londinese, le cui attività illecite (tra cui la costruzione della sede dei Giochi Olimpici a London Docklands) vengono seriamente messe in pericolo da una catena di attentati ed omicidi effettuati da ignoti…

In breve. Un capolavoro del gangster-thriller ottantiano, condotto dal centralissimo personaggio di Harold Shand, ex gangster ed uomo d’affari privo di scrupoli, che si muove nella metropoli londinese tra autorità corrotte, le attività ostili dell’IRA, l’entrata del Regno Unito nella Comunità Europea ed il governo liberale della Thatcher.

Noto in Italia con svariati titoli (Quel lungo venerdì santo, Quel venerdì maledetto o Il giorno del venerdì santo, secondo IMDB), The long good friday si perde in atmosfere puramente metropolitane, pub fumosi, party esclusivi, strade affollate e misteriosi scambi di merce. La performance di Bob Hoskins è uno dei principali meriti di questo film, ruolo studiatissimo dall’attore per cui, a quanto pare, volle parlare direttamente con autentici ganster londinesi (che a quanto pare presenziarono alla prima del film). Harold è il prototipo dell’affarista privo di scrupoli, ancora ligio alla mentalità criminosa che l’ha portato al successo e travolto progressivamente da una realtà più grande di quanto non si potesse aspettare, a dimostrazione di una perenne ed iconica vulnerabilità. C’è poco da discutere, quindi, sul fatto che The long good friday sia uno degli migliori film di genere anni ’80, in realtà al limite di una autentica autorialità. Chi ha un conto in sospeso con Harold Shand? La chiave di lettura del film è questa, e lo spettatore è guidato sapientemente attraverso la soluzione di questo enigma da una regia sempre avveduta e di grande eleganza.

Dopo un crescendo di avvenimenti incalzanti (e qualche lungaggine narrativa, perdonabile data l’ampiezza del contesto) emerge un ritratto da manuale di ciò che non doveva essere troppo diversa dalla Londra anni ’80; il finale, poi, tra i migliori mai visti su uno schermo per il genere, assesta il colpo di grazia in termini di bellezza. Il protagonista paga la propria eccessiva fiducia in sè, trovandosi in una situazione decisamente inaspettata in cui notevolissima, in questi termini, è il lavoro sull’espressività del personaggio, in grado di comunicare stati d’animo contrastanti di tristezza, rabbia, frustrazione e rassegnazione senza dire una sola parola (al momento delle riprese gli venne richiesto di mantenere l’espressione per ben cinque minuti, senza pause). Il suo ghigno tra il sarcastico, il rassegnato ed il rabbioso è diventato iconico, ed entrato nel cinema di ogni tempo.

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