Perchè Tokyo Fist non è il miglior film di Tsukamoto

Tokio Fist è la trasfigurazione in chiave realistica di buona parte delle tematiche affrontate da Tetsuo: alienazione, incomprensione umana e sopraffazione fisica del forte sul debole. Le macchine sono qui sostituite dalla forza del pugilato, che diventa metafora di superamento e schiacciamento dell’altro, oltre che di smascheramento delle sue debolezze. I

l film piacque molto all’epoca dell’uscita per l’efficace rappresentazione di tre caratteri umani, ma probabilmente risulta sopravvalutato e troppo “ordinario” rispetto al resto della filmografia di Tsukamoto.

Un girantesco ring nel quale i tre protagonisti continuano a proporre scontri diretti e a darsele di santa ragione, senza tregua: è forse una metafora un po’ scontata per un film che ha come argomento collaterale la boxe. Tsuda è un brillante agente assicurativo di Tokyo, vive un rapporto difficile ed pieno di incomprensioni con la mite fidanzata Hizuru. La vita nella metropoli lo assorbe completamente, e lo ha trasformato in una sorta di succube alienato, che conosce l’efficenza ma non le basilari regole di sopravvivenza. Un giorno intravede a un incontro di pugilato Takuji, un vecchio compagno del liceo (quasi certamente un bullo), ormai rude pugile professionista che è l’esatto contrario di lui: sicuro di sè, forte fisicamente, prepotente nei confronti dell’altro. I rapporti tra i due diventano difficili non appena Takuji inizia ad intendersela con la fidanzata dell’amico, creando un turbolento triangolo di emozioni.

Il “pugno di Tokio” (traduzione letterale del titolo) colpisce in faccia lo spettatore, toccandolo da subito nello stereotipato orgoglio maschile colpito mortalmente da un rivale in amore più forte. Gli scontri fisici tra i vari personaggi sono estremizzati, l’atteggiamento guerriero del personaggio protagonista – regolarmente riempito di botte, nonostante la sua apparente convinzione e “carica” iniziale – tende a degenerare nel parossismo: e se la cosa farà un po’ ridere lo spettatore meno abituato e più malizioso, si pensi che è stato fatto allo scopo di spazzare via la plastificata apparenza che è costretto ad indossare qualsiasi “colletto bianco”. Insomma i temi del film sono i soliti di Tsukamoto, sempre magistrale a rappresentare la conflittualità umana, l’alienazione metropolitana ed il suo gusto per lo sciacallaggio facile.

Come sempre verso questa categoria di lavoratori “disumanizzati” Tsukamoto si pone non tanto come liberatore, quanto come possibile lenitore del loro dolore interno. E’ evidente che il male principale di Tsuda, che lo rende incapace di rapportarsi nel migliore dei modi con la propria compagna, è proprio la divisa che è costretto ad indossare, che lo rende pacifico, inerme ed incapace di reagire. E’ questo, probabilmente, diventa uno dei mali del millennio.

Per il fatto che la storia sia inserita nella normalità di un contesto quotidiano, e perchè i tre personaggi sono tre “uno qualunque“, probabilmente, Tokio fist presenta a mio parere delle debolezze: per la sua ostentata ordinarietà, per la sua leggermente pretenziosa pretesa di scaricare la tensione dello spettatore in liberatori scontri all’arma bianca (e senza scomodare troppo la nostalgia ci sono altri film orientali che riuscirono a farlo in modo più credibile).

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