BONDiNG ha sdoganato tanti tabù sul sesso. E tanto basta (per ora)

Bonding è una serie TV uscita nel 2018 (e terminata quest’anno) da riscoprire, per chi non l’avesse vista, per una varietà di motivi: tanto per cominciare, la durata degli episodi, di circa venti minuti ciascuno, a comporre due sole stagioni (la terza, inizialmente annunciata, non sembra che uscirà mai). In secondo luogo, gioca a suo vantaggio la fresca leggerezza della narrazione, in grado di disseminare gli episodi di spunti auto-ironici e di personaggi gradevoli.

In ultimo ma tutt’altro che ultimo come importanza, BONDiNG tende mediamente a normalizzare gli aspetti sessuali della vita di chiunque, affrontando con disinvoltura tabù medi e grandi della società in cui ci pregiamo di vivere. Gli stessi tabù a cui siamo soggetti senza volerlo davvero, a volte, abbagliati da false conquiste e da aperture solo di facciata così come, altrettanto spesso non perfettamente a nostro agio nel rendere pubbliche le nostre perversioni. BONDiNG ha il merito di normalizzare il mondo del feticismo sessuale osando rappresentare l’eccitazione sessuale in modo fortemente soggettivizzato, non soltanto esternando o alludendo (senza stereotipi) a relazioni omosessuali, tra docente e studente e via dicendo.

Ed è proprio la leggerezza di fondo ad essere il suo punto di forza; con un tono non certo da trattato filosofico sul genere (modello Cronenberg o Von Trier), bensì dando spazio alle fantasie sessuali umane e, per l’appunto, rendendole accettabili. Un pregio considerevole, a conti fatti, considerando l’arretratezza culturale in cui si vive in molte parti del mondo, ma anche allargando l’osservazione al mondo delle serie e dei film Netflix incentrati sul tema del sesso, che su altri frangenti è quasi sempre costituito da banalità malassortite e sedicenti role play, triti e ritriti.

La questione è complessa, più di quanto possa sembrare: certi cambiamenti come l’effettiva parità tra i generi alla fine si raggiungeranno, sperabilmente, ma credo anche sia necessario introdurre un concetto di gradualità nell’introduzione. L’assalto frontale alla società benpensante, da sempre teorizzato e praticato da tanti, rimane ovviamente lecito, ma c’è anche il dubbio che si possa arrivare ad una maggiore accettazione anche in modo più indiretto. Non che l’opera di Rightor Doyle (con Zoe Levin e Brendan Scannell, tra gli altri) ambisca a farlo a livello di “manifesto”, ovviamente, ma di sicuro è lecito leggera la popolarità della serie almeno in termini di piccolo segnale positivo.

Cosa non da poco, dicevamo poco fa visto che si parla di pratiche bondage, BDSM in genere, female domination, fetish, pissing e via dicendo, pratiche sessuali effettivamente esistenti e parte, piaccia o meno, del dark side sessuale di ognuno di noi. In questo frangente sorprende come, fin dal primo episodio, lo stereotipo sia smentito: a partire da quel Pete il timido che sembra lasciare spazio alla più becera stereotipizzazione da commedia americana, tra studentesse attratte dal docente di psicologia (eccallà), una protagonista dalla doppia vita da matricola e sex worker e naturalmente l’immancabile, l’immarcescibile, l’indomabile “amico gay” di lei, per cui non serve essere esperti di studi di genere per intuirne la portata banalizzante (l’unica vera pecca, forse, a livello di caratterizzazione dei personaggi).

Stereotipare e banalizzare, parlandone più in generale: tutto questo BONDiNG non lo ha fatto, e gliene va dato atto. Le critiche che vennero espresse all’epoca dalla community delle dominatrici di professione, in effetti, che lo accusarono di eccessiva superficialità, nonchè di non insistere abbastanza sull’aspetto consensuale di questo genere di attività, rischiano quasi di lasciare il tempo che trovano. Per lo stesso motivo per cui un film, non andrebbe dimenticato, esprime un punto di vista ed una panoramica del mondo per come regista, produzione ed attori lo vedono in quell’istante. Istante che, mentre leggete, potrebbe essere già superato da nuove conquiste.

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