Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Ho camminato con uno zombie: ha ispirato George Romero, ed è invecchiato benissimo

    Ho camminato con uno zombie: ha ispirato George Romero, ed è invecchiato benissimo

    Un’infermiera si reca in una sperduta località delle Indie Occidentali per curare la moglie del signor Holland, affetta da un male misterioso: dopo qualche tempo escono fuori delle inquietanti storie legate ai riti voodoo del posto, che finiranno per legarsi all’intreccio principale.

    In breve. Un must per gli appassionati di horror: un film cult come pochi, e questo non solo perchè fornirà la materia prima su cui Romero baserà la propria poetica sugli zombi, ma soprattutto per via di innumerevoli suggestioni (a volte solo accennate) che fonderanno buona parte del cinema del terrore come lo conosciamo oggi. Capolavoro, da non perdere per nessuna ragione – nonostante l’età.

    Film storicamente fondamentale per il genere horror, tratto da un soggetto di Inez Wallace e considerato all’epoca della sua uscita – ed un po’ superficialmente – “un’opaca e disgustosa esagerazione di un concetto di vita malsano ed anormale” (New York Times); successivamente venne riabilitato per la sua innegabile intelligenza, eccezionalità ed eleganza, fino a diventare un esempio di quello che molti considerano il primo “zombi-movie” della storia. Questo sia per le tematiche sviluppate – il Morto che si vorrebbe far tornare in vita per Amore, un vero classico – che per via della presenza di Darby Jones nei panni di Carre-Four, l’inquietante “walker” dagli occhi vitrei nonchè Guardiano del luogo in cui avvengono i rituali oscuri dell’isola. “I walked with a zombie” è uno dei film di culto che hanno dato vita, di fatto, a quasi tutti – oserei scrivere – gli stereotipi legati all’immaginario cinematografico dei morti viventi, definendone caratteristiche (ad esclusione del cannibalismo, in questa sede), camminata, comportamento e origine prettamente tribale. Non si pensi per questo ad uno “Zombi” ante-litteram perchè, piuttosto, il risultato si avvicina più facilmente all’immaginario dell’orrore a 360*, specie quello che associa il dramma umano – tipicamente una storia d’amore – al terrore materiale verso la morte (oltre alla diffidenza verso le tradizioni locali). Un’accoppiata, Amore/Morte, che sarà esaltata all’ennesima potenza dal gotico di Mario Bava (giusto per citare uno dei più famosi), e che risulta essere da sempre alla base di qualsiasi letteratura horror di qualità. “Ho camminato con uno zombie“, pur non rappresentando – per ovvie ragioni – morti viventi che cercano di azzannare esseri umani armati di fucili, sorprende grandemente per il suo essere “avanti” – è uscito nel 1943! – e per lo sviluppo delle tematiche lugubri contenute al suo interno: la cosa diventa davvero interessante per via di alcune situazioni che, in qualche modo, rappresentano probabilmente una “prima volta” sulla schermo, e tutto questo nella declinazione originaria (la stessa che Fulci avrebbe onorato nel suo Zombi 2) che lega il “morto che cammina” al voodoo.

    Mi pare interessante estrapolare quello che ci viene suggerito dalla pellicola sul tema specifico – gli zombie – per cui lo propongo per esteso di seguito. Questa archetipica storia di morti viventi, di fatto, sembra trarre origine dal martirio di San Sebastiano, che ne rappresenta probabilmente la chiave di lettura più importante: già qui il pubblico più attento avrà sollevato qualche sopracciglio, dato che si tratta del soggetto ritratto – molti anni dopo – nell’affresco della chiesa de “La casa dalle finestre che ridono” (1976). Una rappresentazione di sofferenza senza scampo, senza speranza e senza redenzione (sembra quasi di essere in un disco dei Cannibal Corpse, ricordavo ironicamente in qualche occasione), tanto che spinge la gente del posto – ci viene raccontato – a piangere durante la nascita di un bambino, ed a trasformare in festa i funerali. Tornando al film, all’interno dell’isola di San Sebastian – nelle Indie Occidentali – esiste un antico castello occupato inizialmente dagli spagnoli, che successivamente divenne proprietà della famiglia Holland; quest’ultima fu anche la prima a portare degli schiavi all’interno dell’isola. Nei pressi del cancello di ingresso, inoltre, si presenta l’inquietante “Tormentato“, un “uomo senza età”, una statua con delle frecce conficcate nel corpo ed un’espressione perennemente sofferente: a sua volta questa immagine evoca la polena della nave su cui la povera gente veniva deportata, e possiede un significato simbolico alquanto evidente.

    Diventa automatico, per inciso, cogliere il fortissimo legame tra la letterale resurrezione di cadaveri e l’ampliamento dello sfruttamento di braccia lavoratrici, ovvero allo scopo di moltiplicare la manodopera (sfruttandola, come ha ribadito in più occasioni George Romero). La moglie di Holland, tornando all’intreccio, è gravemente ammalata: per colpa di una misteriosa febbre tropicale vive in uno stato catatonico, percepisce poco o nulla del mondo attorno a sè, e riesce ad eseguire soltanto i compiti più elementari. Anch’essa, quindi, subisce un martirio dovuto a forze oscure esterne: una figura, quest’ultima, grandemente archetipica – e questo non tanto perchè sia una zombi (di fatto non sembra esserlo, tra l’altro il suo aspetto esteriore si mantiene impeccabile), quanto perchè pone le basi per lo sviluppo del dramma: da un lato Miss Cornell finisce per innamorarsi del marito di lei, dall’altra il fratellastro di lui desidera ardentemente la malata, e farebbe proprio di tutto per (ri)averla vicino a sè. Questo doppio conflitto rende la storia accattivante e propone una rappresentazione del “morto vivente” duplice: da un lato la catatonica che vive una non-morte senza riuscire più ad interagire coi vivi, dall’altra un undead dal passo cadenzato che presenta le principali caratteristiche che tutti conosciamo: occhi gelidi, camminata al rallentatore e mancanza di volontà propria. Tutto questo spinge l’inizialmente scettica infermiera di Ottawa a recarsi presso un antichissimo villaggio in cui si pratica il voodoo, attraversando i campi di cotone oltre i quali arcaici riti hanno ancora vita, senza considerare che presto la povera malata dovrà pagarne le conseguenze.

    Durante il film, tra l’altro, il medico che segue la paziente arriva a concepire una terapia di shock insulinico, ovvero una specie di elettroshock per provare a riportare in vita la “morta” (ed in questo, nonostante sia solo un accenno, non può che venire in mente il lovecraftiano mad scientist di Re-Animator). Subito dopo è la volta del prete voodoo, che viene esplicitamente eletto come una sorta di “medico migliore”, e per ottenere la felicità dell’uomo amato l’infermiera protagonista vorrà spingersi fino in fondo: la stessa dinamica che finirà per muovere, per citare ancora Pupi Avati, il protagonista di Zeder. L’amore impossibile, ed il suo legame con la morte, si stabiliscono come stereotipo con questo capolavoro del terrore: la summa rende “Ho camminato con uno zombie” un’opera profondissima ed ispiratrice di molteplici pellicole, dotata di una poetica sensibile – e questo è possibile avvertirlo sia nella tragica conclusione che nella moralisticheggiante voce fuori campo che commenta la vicenda. Non un tributo totalmente rivolto agli zombi-movie “puri”, quindi (che avranno tempo e modo di svilupparsi), quanto ad un cinema di terrore e dramma che ancora oggi resta vivido come faro indiscusso del genere.

    …esseri strani, spaventosi, ed anche un po’ buffi

  • Ai confini della realtà: Tempo di leggere (J. Brahm, The Twilight Zone, 1959)

    Ai confini della realtà: Tempo di leggere (J. Brahm, The Twilight Zone, 1959)

    The Twilight Zone“, o se preferite “Ai confini della realtà”, per un periodo è stata ampiamente tributata su Italia Uno: tempi lontani, quando di notte ci beccavi Zombi di Romero, qualche b-movie di Carpenter o sci-fi classica alla “L’ultimo uomo della Terra”. “Tempo di leggere” si colloca giusto nel filone apocalittico classico, e potremmo dire che in qualche modo ne pone le basi per quello che si vedrà in seguito. Come commentare oggi un episodio della saga di questa mitica serie di fantascienza?

    In breve. Vedere oggi un’opera così, bianco e nero che sa di preistoria, antesignano di qualsiasi b-movie sembra avere un che di fuori luogo e fuori tempo massimo anche per il blog come il mio. La “zona oscura”, dopo aver passato indenni le paure di un nuovo olocausto nucleare, di un’invasione aliena o di zombi, credo davvero non faccia più paura a nessuno. Eppure sono convinto che l’interpretazione di Burgess Meredith, per quanto in parte sopravvalutata, sia un punto fermo nella cinematografia sci-fiction, catastrofica e – in parte – anche horror.

    Del resto si parla di un episodio del 1959, dal ritmo rallentato e gradevole, con tanto di catastrofismo nucleare annesso: roba che per l’epoca doveva sembra più che avanti (forse soltanto Samuel Beckett aveva osato pensare tanto, in quegli anni, per un’opera d’arte audio-visiva). Passiamo all’episodio: Henry Danies è un impiegato di banca come tanti, un uomo qualunque, umile e modesto, follemente amante della lettura e caratterizzato dagli enormi occhiali “a fondo di bottiglia” che porta. Senza lenti, particolare essenziale per la storia, l’uomo non riesce a vedere nulla, il che diventa quasi una metafora del proprio miope disinteresse verso il mondo “reale” che lo circonda.

    Questa sua passione gli procura enormi problemi sul lavoro, dato che si distrae dai propri compiti e vive in modo completamente alieno dai propri colleghi: a casa le cose non vanno meglio, con una moglie-vipera che lo obbliga a fare cose di cui non gliene importa nulla. Una versione di impiegato sottomesso e goffamente sognatore che manco Paolo Villaggio in Fantozzi, a momenti, anche se privato del tono parodistico della nota serie. L’uomo, ad un certo punto, deciso a ritagliarsi un po’ di “tempo per leggere”, si rinchiude nella cassaforte della propria banca portando con sè un bel malloppo di libri. Poco tempo dopo, un boato immenso interrompe la sua attività: ed è così che scopre, con grande sorpresa, che la bomba H ha raso al suolo la sua città, uccidendone tutti gli abitanti. Unico sopravvissuto, ancor più solo di quanto non fosse prima, vaga disperatamente alla ricerca di qualche appiglio: ma non può fare altro che constatare di essere rimasto solo. Stavolta sul serio.

    Così torna alla propria abitazione, girovagando per una città distrutta nella quale sembrano mancare solo i teppisti di Fuga da New York, e in preda quasi alla follia ricomincia a vivere. Almeno ci prova: sul proprio divano, ad esempio, piazzato tristemente nel bel mezzo delle macerie. In una specie di teatro dell’assurdo fatto di calcinacci, Henry arriva all’unico luogo in cui riesce a trovare la propria dimensione: ma qualcosa di inaspettato cambierà nuovamente la sua esistenza per sempre.Credetemi, rispetto ai tempi si tratta di un vero e proprio cult della mitica “Twilight Zone”.

    Nota: in un episodio dei Griffin compare l’ultimo neurone di Peter nei panni dell’impiegato Henry Danies.

  • Angoscia è l’horror di Bigas Luna

    Angoscia è l’horror di Bigas Luna

    Una madre pazzoide condiziona il figlio mediante ipnosi e lo induce a cavare occhi alle persone; in realtà l’intera vicenda è solo un film che stanno vedendo delle persone dentro ad un cinema, le quali subiranno a loro volta un condizionamento subliminale …

    In breve. Piccola escursione thriller del regista de “Le età di Lulù” piuttosto singolare ed inaspettatamente truce, surreale e a tratti addirittura divertente. I piani della realtà si confondono abilmente senza diventare mai un mero esercizio stilistico: il film avvince e … coinvolge, è proprio il caso di dire, fino all’ultima meravigliosa scena.

    Luna riesce, con questo film, a fare letteralmente il buono e il cattivo tempo, avendo l’idea geniale di innestare abilmente una doppia storia: da un lato un serial killer-infermiere che cava gli occhi delle sue vittime, dall’altro una sorta di suo infelice emulo, accomunato dal fatto di essere succube di una madre autoritaria e che si comporta come l’anti-eroe che ha visto sullo schermo decine di volte. “Angoscia” è interamente incentrato sulla reazione che il pubblico horror innesca nei confronti del cinema che si trova a vedere nelle sale: e infatti il primo cambio di prospettiva mostra le facce disgustate di alcuni giovani, di una coppia di adolescenti e di due adulti alla visione delle sadiche efferatezze del… film stesso! Un lavoro che perde gran parte del suo gusto se viene troppo raccontato (va visto, e solo dopo discusso) e che si incentra sulla meta-realtà così come – in tempi piuttosto recenti – solo Carpenter (penso ovviamente a “Il seme della follia”) ed in parte Argento (penso al sottovalutatissimo Opera) si erano spinti. Ovvero: figurare ed estremizzare a tal punto le paure del pubblico. fino ad arrivare a chiedersi se un film dell’orrore possa condizionarne il comportamento e generare N copycat. Roba che gli psicologi da salotto ci farebbero interi palinsesti TV a forza di masturbarsi, e che messi in scena da un regista di film erotici (a proposito di masturbazione) risaltano in un risultato insperabilmente positivo. Considerando il cammino stilistico avviato da Bigas Luna, uno che non ha certo seguito un percorso di cinema cerebrale o intellettuale che dir si voglia, sembra quasi un atto di accusa contro un certo modo di fare cinema. Ovviamente, e direi per fortuna, così non è, e lo vediamo dalla duplice ironia che caratterizza il finale, e dalla presenza di alcuni personaggi visibilmente contraddittori: su tutti, l’emulo dell’assassino, quello che nella “seconda realtà” continua a ripetere una frase “da film” – “fate come vi dico e nessuno si farà male” – salvo sparare all’impazzata nel mentre ed uccidere alla meno peggio. Per capire ancora meglio di che film si tratti, si consideri dunque l’incipit che ricorda i simil-snuff anni 70 che hanno terrorizzato generazioni su generazioni:

    Durante il film che state per vedere, sarete soggetti a messaggi subliminali e ad una leggera ipnosi: questo non vi provocherà alcun danno fisico o effetti duraturi, ma se per qualche motivo perderete il controllo o sentirete che la vostra mente sta lasciando il vostro corpo… lasciate immediatamente la sala! (la traduzione è mia, ndr).

    Ora non so quanto (e se) Luna creda sul serio a quello che ha fatto scrivere, ma sono pronto a scommettere che il tutto rientri in un piano ben preciso: creare horror di intrattenimento che non sia nè banalotto nè troppo sulfureo, bensì un giusto compromesso che lasci lo spettatore soddisfatto, senza banalizzarlo nè appensantirlo con simbolismi intellettuali che molti hanno voluto trovare per forza fino all’esagerazione. Del resto, vista la pignolerìa e l’esigenza di certo pubblico del terrore, era davvero difficile riuscire nell’impresa – e Bigas Luna, pur essendo fondamentalmente un regista di film erotici, ci è riuscito alla grande. Un ulteriore tocco di satira-parodica condita da humor nero, poi, è presente nella rappresentazione del rapporto tra il figlio nerd e la madre autoritaria, che globalmente non tutti hanno percepito dato che il film è quasi passato inosservato, salvo essere riesumato di recente da alcuni noti siti di recensioni horror.

    Angoscia” è un piccolo gioiello di terrore, surreale e realistico al tempo stesso, diretto con grande maestria ed abilità ed interpretato con lo spirito di uno slasher anni 80: semplicemente imperdibile, che altro aggiungere? E ora dite la verità: sentite già che la vostra mente sta lasciando il vostro corpo?

  • The babysitter: un gioco cinematografico (riuscito) sullo stereotipo della babysitter sexy

    The babysitter: un gioco cinematografico (riuscito) sullo stereotipo della babysitter sexy

    Cole (Judah Lewis), un ragazzino timido ed impacciato, è innamorato di Bee, la sua babysitter (Samara Weaving): una sera che i genitori sono fuori casa, decide di rimanere sveglio per curiosare. Scopre così un’incredibile verità sulla ragazza…

    In breve. Comedy horror dai toni leggeri e scanzonati, che ricorda una sorta di versione parodico-splatter di un classico anni ’90 come Home alone. L’ideale per una visione spensierata, e sostanzialmente gradevole, per chiunque (o quasi).

    Quello di The babysitter è un humour nero goliardico e scanzionato, in parte derivativo dallo splatter demenziale alla Bad Taste (in versione meno insistita e b-movie), che strizza l’occhio alle dinamiche delle commedie americane (protagonista, antagonisti-bulli, vicina di casa, …), infarcendole di splatter e violenza – quest’ultima piuttosto ben dosata, e priva di veri e propri eccessi. Se i toni iniziali sono quelli zuccherosi delle prime, ben presto arriveranno le esagerazioni, in un crescendo difficile da prevedere quanto apertamente “fumettistico” nell’impostazione.

    Del resto la storia del nerd pre-adolescente bullizzato dai compagni, con al seguito vicina di casa e baby-sitter super provocante (e dai trascorsi non impeccabili, come si scoprirà) sembrerebbe di suo gettare le basi per una saga genuina, ricca di perle divertenti come (forse) non se ne vedevano dai tempi del primo Scary movie. Il film finisce ovviamente per simboleggiare il processo di crescita del piccolo Cole, da introverso ed imbranato ad inaspettatamente coraggioso e realista; The babysitter, di suo, ricorda molto da vicino un ibrido tra La casa 2 di Sam Raimi e Mamma ho perso l’aereo di Chris Columbus.

    In fondo Cole non è che un Kevin McCallister altrettanto imbranato quanto, stavolta, alle prese con un’imprevista home invasion da parte di un gruppo di satanisti. Il paragone con questo classico degli anni ’90, del resto, ci invita a goderci il film per quello che è, per una volta senza scomodare paragoni e considerazioni troppo profonde e, al tempo stesso, omaggiando in maniera spudorata vari classici del genere. Se nel film di Raimi l’horror cruento e senza speranza aveva ceduto il passo ad una riedizione insistita quanto parossistica fino al demenziale dello splatter, in The babysitter la lezione viene colta appieno e rielaborata, dando spazio a nuove situazioni paradossali e dialoghi surreali tra gli antagonisti. Da godersi per quello che è e per una serata senza troppi pensieri, insomma.

    La regia di “The babysitter” – distribuito su Netflix a partire dal 13 ottobre di quest’anno – è affidata a McG ovvero Joseph McGinty Nichol, già noto per Terminator Salvation e per vari documentari su Offspring e Cypress Hill, che dirige con classe questo particolarissimo film, facendo trasparire una forte influenza tarantiniana nell’impostazione, a partire dai titoli in sovraimpressione da cine-fumetto a finire con le situazioni sanguinolente e surreali che si verificheranno.

  • Macabro: Lamberto Bava crea un piccolo capolavoro low-budget

    Macabro: Lamberto Bava crea un piccolo capolavoro low-budget

    Jane (Bernice Steigers) tradisce il marito all’interno di una villa isolata; durante la sua assenza uno dei due figli muore in circostanze violente, mentre l’amante rimane ucciso in un incidente stradale proprio per la fretta di rientrare a casa. Dopo un anno in clinica, la protagonista ritorna nel luogo dove avvenivano gli incontri sessuali…

    In breve. L’ispirazione dovrebbe risalire ad un pazzesco fatto di cronaca; in realtà i richiami sono molto variegati, si parte dalla tradizione giallistica all’italiana risalente ad almeno dieci anni prima (intrighi tra benestanti, misteri, scheletri nell’armadio) e si contamina l’atmosfera con il gotico “puro” tipico del padre del regista. Il risultato è un film a mio avviso per pochi, con qualche buco narrativo, una trama “da giallo settantiano”, un gore che tarda ad arrivare (e quando lo fa, colpisce duro) ed una verità (forse piuttosto prevedibile) che si svelerà solo alla fine.

    Macabro è, di fatto, il primo Lamberto Bava: quello con le migliori influenze del padre e quel tocco di personalità che hanno concorso a rendere cult la pellicola nei decenni successivi; il film ha una sua importanza storica, tra l’altro, perchè segna un passaggio chiaro dai settanta agli ottanta. Settantiane sono le musiche, la costruzione dei personaggi e la definizione della tensione di fondo: tipicamente eighties, invece, le atmosfere e l’indugiare rapido e conciso su dettagli – neanche a dirlo – profondamente macabri. Lo spettatore maliziato potrà intuire quasi da subito di cosa si tratta (e questo depone un po’ a svantaggio di una visione oggi); in ogni caso la sequenza del doppio incidente iniziale sembra una versione apocrifa della sfiga mortale di Final Destination (ma la decapitazione non potrà che richiamare l’omologa sequenza di Quattro mosche di velluto grigio girata anni prima). Paragoni a parte, Macabro fa respirare dall’inizio aria malsana, ed indaga sugli incubi umani in modo ambiguo e inquietante, rappresentando efficacemente la finta normalità di un’umanità corrotta fino all’osso; davvero troppo difficile dire di più sull’argomento senza fare spoiler, a questo punto.

    Un film che vi lascerà profondamente scossi (si spera), nonostante sia un sostanziale “studio d’atmosfera” che – pensavo mentre lo guardavo – si sarebbe adattato più ad un cortometraggio, liberandosi così dei fronzoli che finiscono (secondo alcuni) per appesantirlo. Per cultori del genere, a mio parere, e per il pubblico più orientato sull’ open-mind; si tenga conto che – nel bene o nel male – un pezzo di storia dell’orrore italiano, per quanto ridimensionabile, è stato girato da Lamberto Bava anche in questa sede.

    Qualche nota a margine sulla trama: il film è lento, decisamente più rallentato rispetto alla media del periodo, e questo lo riconduce a mio avviso ad un film decisamente d’ambiente. La cosa potrebbe inorridire (!) alcuni amanti dell’orrore, specie quelli che non apprezzano il gotico e la sua tipica atmosfera oscura da cui “Macabro” ha tratto gran parte dell’ispirazione. Nel finale, poi – al di là della terrificante scoperta, che come detto prima per molti finirà per essere “acqua calda” – c’è una sostanziale forzatura sovrannaturale, impianta a scopo puramente scenografico che, a mio avviso, fa perdere gran parte dell’efficacia al film. Mi riferisco all’ultimo fotogramma, che ho trovato piuttosto pretestuoso e abbastanza scollegato con il resto della storia. Un tema come la necrofilia, di fatto, non dovrebbe mai cedere il passo ad aperture di questo genere: i più grandi successi non lo hanno mai fatto, perchè un gore poco realista (o poco credibile, se preferite) spaventa molto meno di quanto non faccia, ad esempio, anche il più gratuito degli splatter amatoriali. Se non si trattasse di un film diretto con grande maestria (cosa, questa, assolutamente fuor di dubbio) staremmo qui a parlare dell’ennesimo sconfinamento dell’orrore italiano nel ridicolo involontario. Non me ne voglia nessuno dei fan di questa pellicola, ma trovo che questi difetti rendano sostanzialmente appena sufficente l’intero lavoro, che per quanto ben diretto e discretamente interpetato soffre di un sostanziale problema di script.