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  • Il maestro e margherita: il classico di Bulgakov riletto da Aleksandar Petrović

    Il maestro e margherita: il classico di Bulgakov riletto da Aleksandar Petrović

    Uno scrittore sta lavorando a un’opera teatrale di ispirazione biblica su Ponzio Pilato; nel frattempo Woland (alter ego di Satana in persona) e due oscuri figuri sembrano interessarsi all’opera.

    In breve. La trasposizione è semplificata rispetto al romanzo, ma nel complesso regge e dovrebbe (al netto delle consuete – quanto irrealistiche – manìe traspositive) onorare la memoria dell’opera da cui è tratto. Memorabile anche per l’atipica e fondante interpretazione drammatica di Ugo Tognazzi.

    Bisogna guardare un film direttamente. il cinema non è l’arte degli accademici, ma degli illetterati“: a formulare il pensiero appena riportato è stato Werner Herzog in persona – la citazione è tratta dal libro-intervista Incontri alla fine del mondo, Edizioni Minimum Faxconsiderato uno dei principali portavoce del cinema colto e impegnato, esponente della corrente del nuovo cinema tedesco e (potremmo aggiungere, a corredo) intellettuale controcorrente.

    Ho visto questo film mentre finivo di leggere il mattoncino appena citato, e non ho potuto fare a meno di collegare le due linee narrative. La visione de Il maestro e margherita andrebbe effettuata, infatti, dopo aver ribadito quella frase un paio di volte, imparandola a memoria e rifiutando per questo motivo qualunque parallelismo letterario-filmico che rischierebbe, di fatto, di essere fuorviante. Se è vero quello che ha affermato Herzog, infatti, possiamo concederci questa edizione de Il maestro e margherita addirittura (!) senza aver mai letto il romanzo. Senza pensare nulla altro di atipico, lo faremmo giusto per attribuirci un grado di libertà che non è così scontato concederci.

    Lo faremmo, in effetti, anche solo al fine di evitare di farci travolgere dalla barbosa questione della “propedeuticità” del romanzo – vedi il putiferio scatenato dalla versione filmica de Il signore degli anelli, ad esempio – e la consumata dicerìa secondo cui “il film è sempre inferiore al libro da cui è tratto“. Se istintivamente tendo a dare ragione a questa affermazione, infatti, ho comunque ritenuto che le due forme espressive cinema/letteratura siano, in fondo, del tutto scorrelate, sostanzialmente imparagonabili tra loro, e basterebbe citare anche solo Arancia meccanica per convincersene: entrambi pregevoli, sia nella forma di Burgess che in quella di Kubrick. E che a nessuno venga in mente di citare Shining, a questo punto, perchè questo discorso di indipendenza vale addirittura in quel caso (sono due opere diverse, tanto che le schermaglie tra scrittore e regista in merito, viste oggi, sono superate e forse più egotiste che altro).

    Tutto questo spiegone senza aver ancora citato nulla del film? (Purtroppo) sì, è necessario perchè l’opera è complessa, non quanto il romanzo ma quasi, e merita un approccio da parte dello spettatore che non sia nè saccente nè tantomenoe superficiale: la teatralità marcata dell’opera potrebbe, ad oggi, essere meno compresa di quanto non fosse per il 1972, periodo in cui lo sperimentalismo era quasi la norma o la necessità. La regia di Petrović è di natura sperimentale ma non tanto da disorientare lo spettatore, e riesce ad essere avulsa dallo stile lisergico di (forse) troppe opere del periodo. Quando ho scritto che questo film onora il romanzo, in effetti, ritengo che lo faccia non perchè ricostruisca i passi della storia originale in modo fedele (cosa che sarebbe stata alquanto improbabile in ogni caso), quanto perchè evidenzia in pochi tratti il mood letterario che ha reso famoso Il maestro e margherita.

    Poche, scaltre pennellate bastano al regista per delineare il tutto: la raffigurazione dell’artista appassionato e destinato alla miseria, l’atteggiamento ottuso dei burocrati censori, la figura satanica che si pone come autentico sovversore dell’ordine costituito, che Petrovic sembra esprimere contrapponendo il satanismo e la sua anarcoide libertà ad un mondo piatto, ateo quanto conformistico, feroce contro i dissidenti e burocratizzato in modo grottesco. E lo vediamo chiaramente nella scena raffigurata anche nella locandina, quella del pubblico a cui Woland fa scomparire i vestiti, sequenza che si presta peraltro a più di una interpretazione simbolica (se  il pubblico siamo noi, per intenderci, siamo “nudi” di fronte al fascino della trasgressione, per quanto l’ateismo potesse sembrare almeno inizialmente la “vera” libertà).

    Il sovvertimento culturale di Petrović è sostanziale, in parte forse sottovalutato da parte della critica e merita un elogio anche solo per questo, sulla falsariga della sua appartenenza alla celebre Onda Nera – nome inquietante dietro il quale si firmavano vari cineasti “semplicemente” critici verso il regime sovietico. La sua riduzione è del 1972, ed è opportuno chiamarla “riduzione” perchè assume un approccio inesorabilmente riduzionista (quanto efficace, a mio avviso) rispetto alla pluri-citata complessità del romanzo originale, in grado di far comunque evolvere due trame in parallelo senza perdersi in virtuosismi letterari che, se da una parte lo hanno reso una delle opere più celebri della letteratura russa, sarebbe state improbabili sullo schermo. Parte dell’impianto scenico di base viene comunque mantenuto, e si vede che lo script è molto lavorato quanto, in alcuni casi, forse troppo da b-movie (le sequenze delle decapitazioni, ad esempio, danno l’idea di una lavorazione sbrigativa, per così dire). Stando a IMDB, per la cronaca, si sono occupati di soggetto e sceneggiatura il regista in persona, Barbara Alberti, Amedeo Pagani e Romain Weingarten.

    Del resto questo approccio critico non dovrebbe scandalizzare gli appassionati o “puristi” dell’opera letteraria, perchè non è questo il punto; come abbiamo ribadito, dovremmo accettare che Bisogna guardare un film direttamente. il cinema non è l’arte degli accademici, ma degli illetterati. In fondo siamo quasi tutti tentati, credo, a credere a quelle parole, e proprio perchè a dirlo è Werner Herzog, un cineasta impegnato e impegnativo par excellence che in quel passaggio è quasi toccante per la sua semplicità e umiltà. E proprio perchè non è Peter Jackson o Nando Cicero (tanto per citare due estremi opposti) a pensarla così, ci sentiamo un po’ più legittimati a recensire l’opera rigettando a priori di proporre inquietanti paragoni col romanzo, anche in nome della scarsa filmabilità di default che si attribuisce spesso, ad esempio, ad H. P. Lovecraft. Se infatti lo scrittore di Providence è considerato da decenni molto difficile da rappresentare sullo schermo, Bulgakov probabilmente rasenta l’impossibilità e, di fatto, costringe a spostare il focus sulla regia e (non troppo) sullo script.

    Ci sono due elementi fondanti questa riduzione filmica del romanzo di Bulgakov, che chiameremo “riduzione” in senso sia letterale che figurato, proprio perchè sarebbe stato insano proporre una versione uncut dell’opera, cosa che – a quanto pare – è avvenuto in una sola circostanza ed ha richiesto una lettura radiofonica di circa 20 ore. Le accuse di banalizzazione e riduzionismo a Petrović sono quindi, in partenza, frutto di un bias cognitivo molto radicato anche nell’animo di tanti cinefili che sanno il fatto loro, e che sarebbe il caso di mettere da parte.

    Il maestro e margherita rimane ovviamente un film complesso e ricco di sottotesti, allusioni, allegorie e simbologie complesse da decifrare: al tempo stesso è chiaro come voglia essere una critica feroce al regime sovietico ed al suo materialismo dialettico, considerato dalla sceneggiatura un elemento esecrabile quanto in grado di appassire o degradare la realtà. I due elementi che caratterizzano l’opera di Petrović sono, a questo punto, il grottesco (che pervade l’intera opera con momenti davvero sublimi ed altri forse un po’ meno efficaci) e la drammatizzazione spinta nella recitazione degli interpreti. Di fatto la prima componente si declina con effetti speciali artigianali quanto coraggiosi nel loro impianto, con alcune sequenze che sconfinano quasi nell’horror oltre che nel fantastico.

    Il feeling drammatico è di derivazione evidentemente teatrale, ed è anche chiaro che il parallelismo tra la storia di Pilato rispetto a quella del Maestro Nikolaj Afanasijevic Maksudov è giustamente rievocata durante lo svolgimento della trama. Proprio quest’ultimo personaggio è mirabilmente interpretato da Ugo Tognazzi, in una delle sue tante interpretazioni drammatiche, oltre che probabilmente uno dei motivi per cui il film ebbe una discreta popolarità anche in Italia. Maksudov si strugge perchè la sua arte non viene compresa, anzi viene boicottata dai burocrati sovietici, che dall’altro della loro arroganza e impunità non accettano la sua visionarietà, il suo andare oltre il “sacro” materialismo, meno che mai i riferimenti filo-anarchici di critica al potere come violenza.

    Se volessimo individuare un difetto filmico, a questo punto, non possiamo fare a meno di citare alcuni apparenti vuoti narrativi che poi, di fatto, sono semplici pause prolungate: lo spettatore ci mette probabilmente un po’ a sintonizzarsi con questo aspetto, allo stesso modo in cui non faticherà a farsi affascinare dalla figura di Woland (un diavolo allusivo e potentissimo che, probabilmente, è un po’ il padre putativo di tanti altri demoni di forma umana visti sullo schermo di seguito).

    Il film procede più speditamente di quanto quelle pause possano suggerire, e permette quasi di azzardare che la riduzione sia stata sintetica al punto giusto, nonostante qualche inevitabile fusione narrativa che i fan di Bulgakov quasi certamente criticheranno. Nonostante questo, il mio parere positivo non cambia, e vale la pena dare (o ridare) ancora oggi una possibilità a questo lavoro, a dispetto della sua età e del fatto che riesce a farsi amare, come pellicola, anche senza conoscere l’opera originale. E questo, anche se sembra incidentale o di poco conto, non andrebbe sottovalutato.

  • Nekromantik: horror realistico e underground, solo per cultori

    Nekromantik: horror realistico e underground, solo per cultori

    Robert e Betty è una coppia dalla singolare perversione necrofila: in particolare l’uomo, che lavora per una ditta che rimuove cadaveri dopo gli incidenti, le procura pezzi di corpi umani. Un giorno perde il lavoro: parte così una crisi di coppia che si risolverà in maniera decisamente macabra.

    In breve. Sporco, crudele, realistico: Nekromantik è un po’ la summa dell’horror underground, quello che punta sul realismo e sullo shock dello spettatore. Un discreto ritmo accompagna lo svolgimento della trama e non c’è tempo di distrarsi o annoiarsi: da vedere, ma solo per hardcore fan.

    Uscito nel 1987 in Germania, Nekromantik delinea con pochi tratti la storia di Rob e Betty, coppia di necrofili che trafuga pezzi di cadavere e, dopo qualche tempo, un intero corpo. Rispetto ai toni accennati che avrebbe un horror del genere in altre circostanze, Nekromantik è esplicito e crudo: mostra quello che non si può mostrare, quasi nel delirante diniego di qualsiasi Codice Hays, e questo anche a partire da piccoli dettagli non indispensabili alla trama quanto crudi, espliciti e spesso addirittura poco funzionali alla trama (la morte del coniglio, un uomo ed una donna che urinano). Ma serve a costruire, per quanto in modo greve, l’atmosfera che pervederà la pellicola fin dalle prime scene.

    Il taglio di Nekromantik, opera prima di un all’epoca giovanissimo regista Buttgereit, è più realistico che non si può – tanto da rasentare lo snuff simulato in più di una sequenza. La regia è solida, credibile e impietosa – questo nonostante i mezzi davvero limitatissimi – e si sofferma sui dettagli più macabri senza risparmiare dettagli, e proponendo fin da subito grevi parallelismi (un cadavere vivisezionato montato in alternanza con un coniglio ucciso e spellato). Secondo il regista, del resto, l’idea era quella di sfidare apertamente la censura tedesca, con l’intento di shockare il maggior numero di persone possibili. Lo spirito, insomma, è di quelli più primordiali, e l’intento sembra perfettamente riuscito.

    Nekromantik parte con un avviso formale al pubblico (“questo film potrebbe essere giudicato come grossolanamente offensivo, e non andrebbe mai mostrato ai minorenni“) ed una citazione criptica (attribuita al misconosciuto V. L. Compton: Quali vite non vivono dalla morte di qualcun altro?), che fanno intuire come dietro alla mera esposizione di splatter ci sia una sorta di poetica macabra, della serie: mostrare una relazione di coppia dalla passione necrofila in cui, alla fine, lei mostra di preferire un cadavere al compagno. Del resto la tagline stessa di Nekromantik è pervasa da un minimo di humour nero – piuttosto sottile, con chiaro riferimento al risvolto tragico della storia (“A film about love for man and what remains of him.“).

    Se il sospetto è fin da subito che la crudeltà e la grevità finiscano per appesantire la visione nel suo complesso (che certo non potrà mai definirsi con aggettivi tipo “gradevole”), rimane sempre aperto un discreto spiraglio di ironia cupa, ed il fatto che si tratti di uno dei pochi horror a tema puramente necrofilo.  Siamo comunque al cospetto del primo Buttgereit – quello che solo in seguito raffinerà la propria arte con Der Todesking e Schramm, sempre geniale quanto low-budget regista di horror. Le idee ci sono, e si vede: mancano i mezzi, e si vede che il film è (volutamente) poco raffinato.

    Nekromantik mostra tutto, anche le scene di sesso col morto, il perverso manage-a-trois ideato dalla coppia, il suicidio finale con tanto di finto fallo. Ma non si tratta solo di rappresentare violenza e perversione per il gusto di farlo: c’è una poetica macabra ed esplicita sulla morte e sull’amore. Rob viene licenziato dal lavoro, nello specifico, e a quel punto scatta la crisi di coppia. Alla fine Betty (che approva la raccolta di pezzi di cadavere in formaldeide e fa usualmente il bagno nel sangue umano) trova nel cadavere il suo nuovo amante. La genialità della trovata emerge con chiarezza, e suggerisce un doppio piano di lettura: da un lato la presunta libertà di una scelta (espressa da un semplice e letterale feticcio), dall’altra l’incubo depressivo di Rob che si esplica nel dolore fisico auto-inflitto.

    La pornografia diventa morte, a quel punto, e non c’è scampo per lo spettatore.

  • Uccelli d’Italia: quando gli Squallor girarono un film

    Uccelli d’Italia: quando gli Squallor girarono un film

    Uno dei due cult cinematografici degli Squallor: commedia ad episodi con assurdità demenziali all’ennesima potenza per un genere che, nel 1984, aveva ancora tanto da raccontare. La regia è di Ciro Ippolito, lo stesso che realizzò lo spin-off di fantascienza noto come Alien 2.

    Il trash è consapevole di se stesso: troviamo le scenette tipiche dell’italiano medio riportate in chiave umoristica e non-sense (ma anche, c’è da dire, con grande intelligenza e parsimonia). In questo film i quattro geniacci della musica italiana (Bigazzi, Pace, Savio e Cerruti), spesso in compagnia a bellissime attrici (Sabrina Siani, o la fulciana Cinzia de Ponti) prestano i propri volti a scene irriverenti, fuori dalle righe, inconcepibili da raccontare, quasi sempre legate al demenziale più cristallino oltre che infarcito di siparietti pazzeschi e, proprio per questo motivo, assolutamente spassosi.

    Tutto è demenziale in “Uccelli d’Italia“, e tutto è dotato di uno humor pazzesco e piuttosto inedito per l’epoca, a cominciare dal titolo che fa riferimento all’inno nazionale “Fratelli d’Italia” (ma che secondo alcuni sarebbe anche la parodia di “Uccelli di rovo“, una miniserie iconica di metà anni Ottanta diretta da Daryl Duke). Ma attenzione, questo non deve far pensare a quella comicità gratuita a cui potremmo essere abituati oggi (la stessa che Maccio Capatonda ha fatto varie volte oggetto di meta-umorismo), fatta di vuoti tormentoni dei quali ridere in modo fine a se stesso.

    Ippolito e gli Squallor aggrediscono i luoghi comuni dell’epoca, il perbenismo (ben prima che diventasse patrimonio culturale dei troll della politica e dei social) e – direi soprattutto – sfidano la censura con la propria irriverenza. Come fa ad esempio Daniele Pace quando pronuncia la parola “eiaculare” la bellezza di dieci volte di fila, perchè sì. Uno schiaffone alla cultura mediocre (e rigorosamente democristiana) dell’epoca che, di sicuro, nel suo piccolo non passò inosservata, e che fu in fondo la forma di ribellione insofferente per cui gli Squallor stessi nacquero, vissero e spirarono qualche anno dopo.

    Uccelli d’Italia, con la sua iconica capacità di dire tutto senza dire nulla, di esagerare senza andare mai al punto, di diventire senza raccontare quasi nulla, è altresì abile a costruire atmosfere seriose (molto spesso da telenovela anni 80, in cui il modello era naturalmente Uccelli di rovo), per poi smantellarle con la spontaneità delle barzellette di Pierino o, se preferite, con l’immediatezza di battute al fulmicotone che oggi passano relativamente indifferenti ma che, per l’epoca, furono avanti e anche di molto.

    Non bisogna dimenticare che dietro questo film vi è il lavoro artistico di Bigazzi, Savio, Cerruti e Pace, attivi per circa 40 anni in una band seminale che nel frattempo è diventata di culto, artefice di ciò che tanti altri gruppi successivi avrebbero banalizzato come “rock demenziale”, e che avrebbe ispirato orde di artisti estasiati da quegli ascolti – era meglio quando c’erano gli Squallor, in effetti. E sono giusto i non-sense esasperati degli artisti che crearono “38 luglio”, “Cornutone” e “Tutto il morto minuto per minuto”, diretti dal regista di Alien 2 – Sulla terra, a prendere quasi completamente la scena e ad occuparla con insensatezze che lasciano lo spettatore sbigottito, costretto a ridere. Immersi in una colonna sonora in parte degli stessi Squallor (ad esempio “A chi lo do’ stasera“, che venne reinterpretata con testo leggermente diverso da Nadia Cassini), in parte dei Village People – che conferiscono, questi ultimi, al film quell’atmosfera così ottantiana – non mancano tanti riferimenti a tormentoni e serie TV che ancora oggi fanno il loro effetto: su tutti l’intermezzo fisso tra un episodio e l’altro, che da “Italia Unoooo” diventa inesorabilmente “Italia culoooo“. Senza dimenticare che “Anche i ricchioni piangono” (anche qui, se parlassimo di politicamente corretto non ne usciremmo più) e soprattutto <<“Osvaldo non sarà più tuo”, un dramma tra due donne ed un mezzo culo in 185 puntate>>.

    Particolarmente riusciti rimangono l’episodio iniziale, con il prete che illustra chiaramente le proprie intenzioni nei confronti dell’amante clandestina, la storia di Bigazzi – scrittore in crisi creativa – tormentato da moglie e figli che decide di risolvere la questione con una bomba a mano (!) e, forse soprattutto, una coppia che rientra a casa, lui è appena tornato da un viaggio, lei chiede insistentemente “Cosa mi hai portato da Parigi?“, e dopo uno strip-tease totalmente inutile ai fini della storia l’uomo tira fuori dalla giacca … una provola (!). Mini-film a sè stanti, quindi, perennemente in bilico da demenziale e comicità assurda, con alcune volutissime sbavature come il momento in cui Pace (che interpreta un morto di recente) scoppia dal ridere per via dei riferimenti di Cerruti, vestito da vedova, al capitone ed al celebre “e mo chi mi chiava ammè“.

    Un film sincero e spassoso, da tempo uscito in DVD assieme al degno compagno “Arrapaho“, che si lascia guardare con piacere anche oggi, nonostante alcuni momenti alquanto spiazzanti, ma solo perchè i riferimenti non sempre si riescono ad intuire (come avviene molto facilmente, invece, con la parodia dei Visitors, altro cult d’epoca). Probabilmente sulla scia di “Uccelli d’Italia” con qualche mezzo in più sarebbe potuta nascere una sorta di Troma all’italiana (il feeling c’è tutto); del resto sappiamo tutti come venga visto un certo cinema dalle nostre parti, per cui probabilmente va benissimo già quello che abbiamo.

  • Blood Feast è stato il primo horror splatter mai girato

    Blood Feast è stato il primo horror splatter mai girato

    Un donna di Miami si reca in un ristorante esotico per organizzare un banchetto per la figlia: non sa che il venditore è uno psicopatico che usa smembrare corpi di donne per allestire sacrifici umani, in onore della dea Ishtar (mesopotamica, ma spacciata per egizia nel film).

    In due parole. Blood Feast dovrebbe essere visto da qualsiasi appassionato di splatter e, probabilmente, da nessun altro: con sano gusto vintage (siamo negli anni 60) rappresenta morbosamente la contrapposizione tra il mondo perbenista dell’America e la ferocia assassina di un insospettabile maniaco. Le scene gore sono inusualmente forti per l’epoca, fino a confezionare un buon grindhouse con molta forma e poca sostanza.

    Girato a Miami in soli nove giorni, con costo complessivo di circa 25.000 dollari, fa riferimento fin dal titolo al “banchetto di sangue” egizio effettuato tradizionalmente 5.000 anni fa, il quale prevedeva non soltanto il sacrificio di una sacerdotessa, ma anche un vero e proprio atto di cannibalismo. Lewis riesce a mettere assieme dettagli disgustosi ed una trama piuttosto esile per produrre quello che viene considerato universalmente il primo splatter della storia: violento, sgradevole ed esteticamente perfetto. Gli effetti speciali sono davvero impressionanti per un film dei primi anni 60, ed il sangue scorre a fiumi in un rosso vivido che ricorda – a partire dai titoli di testa – più quello della vernice colante che altro. Esagerata e grottesca (ma per nulla divertente) la rappresentazione del gore, con punte di esagerazione a partire dal macabro dettaglio con cui viene reso il sezionamento del killer, perennemente con gli occhi di fuori ed attentissimo a prelevare un organo differente da ogni vittima. La violenza dell’assassino è pari probabilmente solo a quella del “paperino” de Lo squartatore di New York, una “mazzata” del cinema anni 80 amatissima dai fan ed accusata più volte di compiaciuta misoginìa. Qui il Bene finisce per trionfare, ed in un modo che più ovvio non si può, mentre passa la sensazione sgradevole di un’America puritana che sembra guardare con sospetto agli stranieri titolari di ristoranti, immaginati come soliti cucinare essere umani e servirli come vivande. Un razzismo velato, forse del tutto involontario, che non è comunque mai troppo fine a se stesso, e che si presta a voler rassicurare il pubblico ad ogni costo nonostante l’efferatezza della maggioranza delle scene.

    Per appassionati e curiosi dei meandri splatter è semplicemente una chicca del suo genere.

  • Maxxxine

    Maxxxine

    MaXXXine (2024)

    MaXXXine è il capitolo finale della trilogia horror “X” di Ti West, che include anche X (2022) e Pearl (2022). Il film, scritto e diretto dallo stesso West, vede Mia Goth riprendere il ruolo di Maxine Minx, l’unica sopravvissuta al massacro avvenuto in Texas sei anni prima.​

    Ambientato a Los Angeles nel 1985, il film segue Maxine nel suo tentativo di sfondare a Hollywood come attrice. Mentre ottiene un ruolo in un film horror, The Puritan II, il suo passato torna a perseguitarla. Sullo sfondo degli omicidi del “Night Stalker”, una scia di sangue minaccia di svelare i suoi oscuri segreti.​

    Il cast include, oltre a Mia Goth, Elizabeth Debicki, Moses Sumney, Michelle Monaghan, Bobby Cannavale, Halsey, Lily Collins, Giancarlo Esposito e Kevin Bacon.​

    Distribuito da A24, il film è stato presentato in anteprima al TCL Chinese Theatre di Los Angeles il 24 giugno 2024 ed è uscito nelle sale statunitensi il 5 luglio 2024. Con un incasso mondiale di 22 milioni di dollari, è diventato il film di maggior successo della trilogia. La critica ha espresso pareri generalmente favorevoli, lodando lo stile e l’interpretazione di Goth, pur considerandolo da alcuni il capitolo più debole della serie. La pellicola è stata classificata “R” per “forte violenza, gore, contenuto sessuale, nudità esplicita, linguaggio e uso di droghe”​

    1. https://en.wikipedia.org/wiki/MaXXXine
    2. https://www.imdb.com/news/ni64684104/
    3. https://www.imdb.com/title/tt22048412/
    4. https://www.imdb.com/video/vi3448751641/
    5. https://www.imdb.com/news/ni64684473/
    6. https://www.imdb.com/news/ni64529360/
    7. https://www.imdb.com/video/vi2068169241/
    8. https://www.imdb.com/title/tt36056669/fullcredits/
    9. https://www.imdb.com/video/embed/vi1725941273/
    10. https://www.imdb.com/news/ni64683437/