Cam: vite da camgirl in chiave horror

Alice è una camgirl ambiziosa ed appassionata, finchè non scopre di essere stata hackerata e che il suo alter ego digitale continua ad esibirsi in video a sua insaputa.

In breve. Un thriller frenetico e moderno, in grado di realizzare un’idea originale: un diabolico chatbot in grado di emulare i comportamenti di una persona. Non esente da difetti, ma gradevole.

Nel 1950 Alan Turing, uno dei pionieri dell’informatica moderna, arrivò a concepire uno dei capisaldi del mondo digitale: la possibilità che una macchina possa esibire un comportamento analogo a quello di un essere umano. Immaginando un colloquio in forma esclusivamente scritta, Turing ipotizza che un esaminatore ponga delle domande ad un uomo e ad un bot, e che quest’ultimo possa farsi davvero credere un essere vivente. Il test è prettamente logico-filosofico, e possiede un valore soprattutto accademico, oltre ad essere stato ampiamente discusso (e male interpretato, a volte: nel 2014, ad esempio, uscì la notizia di un supercomputer in grado di superare tale test, ma la notizia era falsa e fraintesa dai media).

Ad oggi, la tecnologia dell’intelligenza artificiale ha prodotto risultati impressionanti: tra questi, software open source come Keras e TensorFlow sono in grado di costruire video artificiali realistici basandosi sull’analisi di canali Youtube, e realizzare così video fake. Si va dai classici video-montaggi satirici a controverse categorie hot, tra cui i finti porno di attrici famose riscuotono una certa diffusione su siti come Reddit.

Introdurre in questi termini Cam di Goldhaber – regista americano al suo terzo film – potrebbe, in qualche modo, sembrare poco alla portata di chiunque, forse quanto il test succitato a cui (a mio modesto avviso, s’intende) potrebbe in qualche modo ricollegarsi. La sua portata, pertanto, è ovviamente non paragonabile al test del matematico britannico, ma ne condivide (non saprei dire quanto volontariamente) parte dei presupposti. Del resto l’idea di un chatbot non solo in grado di rispondere ad un essere umano, ma anche in grado di comportarsi come lui in una videochat, è davvero considerevole e – cosa ancora più inquietante – si basa su un’idea romanzata quanto, almeno in parte, realmente possibile.

Alice è una ragazza che lavora come camgirl: sono le donne che propongono spettacoli hot in alcuni siti specializzati, e che nel gergo americano vengono definite sex workers. La protagonista si esibisce da un piccolo set realizzato ad arte utilizzando la propria webcam, e propone ai fan uno show fantasioso, elegante e basato su sesso e violenza simulata. I frequentatori del sito, dal canto loro, possono interagire con la ragazza e farle richieste (a pagamento) di ogni genere, che la stessa può accettare o meno.

La ragazza si firma col nickname Lola, ed ambisce ad essere una delle dieci più cliccate del sito che frequenta: ad un certo punto, pero’, si ritrova chiusa fuori dal proprio account. Poco dopo scopre di essere stata clonata digitalmente: i suoi show mostrano un suo doppelganger in grado di interagire coi fan, parlare e muoversi esattamente come lei. Anche gli show violenti (con coltelli e pistole) vengono emulati alla perfezione, mentre la stessa assiste, inerme e sconvolta, alla spettacolarizzazione di se stessa.

Sceneggiato con intelligenza da Isa Mazzei (una ex camgirl, guarda caso), Cam mostra i tabù dell’era internet e social, evidenziando i rischi per la privacy (Alice che viene scoperta dalla madre), ma rinunciando a qualsiasi considerazione etica, trombonistica o morale in merito (non si fa mai riferimento ai guadagni della protagonista, ad esempio, ma solo al lato umano depradato e avvilito dal suo alter-ego digitale). Grande sensibilità registica e toni quasi favolistici, pertanto, in questo: il nome stesso “Alice”, assieme al nickname che si crea per rimanere in contatto col sito (Teapot, ovvero teiera), sono riferimenti ad Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll – un po’ come se quel mondo magico e vagamente psichedelico fosse stato trasposto all’interno del dark web.

Goldhaber prende in prestito qualche stilema tipico del genere (basti pensare a film ambientati quasi interamente in chat come Smiley , The den o Unfriended): dal feticismo per qualsiasi cosa a vere e proprie forme di snuff, del quale pero’ vediamo quasi subito la componente posticcia (questo, se vogliamo, depotenzia un po’ la messa in scena).

Paradossalmente, poi, in Cam il sesso – se non per qualche sequenza in cui si capisce cosa succeda senza essere espliciti – è un freddo, distaccato accessorio. Del resto a volte le camgirl si esibiscono vestite (e con successo ancora maggiore), il tutto a confronto con la presunta eccitazione nel vedere una persona, separata da uno schermo, seguire le tue fantasie, eliminando ogni contatto che non avvenga tramite esso (citare Videodrome a riguardo è quasi superfluo).

Del resto ce n’è abbastanza, in una storia semplice e dal feeling giovanile (le rivalità tra camgirl, l’ambizione per la top ten del sito), per porre una serie di quesiti morali: su tutti, la capacità della nostra immagine social, che sia un account Instagram o da sex worker, di sopraffare il nostro vero io, imponendoci comportamenti o atteggiamenti che diversamente mai avremmo. È lo stesso quesito che, in forma documentaristica, pone una serie interessante (quanto non esente da lungaggini) come Hot girls wanted, e che qui si pone nella forma compatta di un film scorrevole, spaventoso al punto giusto e ricco di trovate originali – su tutte, l’alter ego di Alice che entra nella stanza della ragazza, che in quel momento si trova lì ed è in preda al terrore per via della “presenza” invisibile.

Del resto se ho citato Turing all’inizio è per due motivi: prima di tutto per i presupposti del film sviluppati (non so quanto volontariamente) sulla base di quelle congetture – ma anche perchè la chiave di volta della storia passa per un “test” che potrebbe ricondursi alla medesima falsariga. A quel punto, chi cerca la spiegazione del finale dovrebbe leggere Turing (ovviamente sto ironizzando: il linguaggio del film resta alla portata di chiunque, alla fine).

C’è da aggiungere, poi, che la parte migliore del film è proprio l’ultima, e che molti passaggi precedenti (quasi tutto il film) potranno risultare logori: il campanello dei tip, cioè delle donazioni alle modelle, alla lunga diventa irritante, e alcune riprese sullo schermo delle chat sono tanto veloci da risultare poco fruibili. Al netto di questo, la suggestione è considerevole solo se si conoscono (e si condividono) i presupposti di Cam: diversamente, il film rischia di risultare fiacco, al netto di recensioni entusiastiche (quanto pleonastiche) che si leggono in giro. Del resto l’internet horror è un sotto-genere con una dignità ormai consolidata, ma questo film resta legato al target di quei frequentatori di chat erotiche che forse, ad oggi, si stanno eclissando dietro Tinder o analoghe alternative.

Certo Cam è meno banale di quello che potrebbe sembrare, ed una visione la merita quasi senza dubbio (lo trovate facilmente su Netflix).

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