In un imprecisato futuro post-apocalittico, il cibo viene utilizzato direttamente come denaro (mais e legumi, ad esempio), ed un inquietante macellaio vende direttamente carne umana: il Delicatessen del titolo (gastronomia) fa riferimento al suo negozio. Il palazzo è popolato da strani coinquilini dal comportamento grottesco, a cui si aggiunge un ex clown (Luison), il cui collega è stato rapito e divorato da ignoti. È evidente che il condominio non sia esente dalla macabra pratica, e naturalmente il macellaio si trova ad esserne direttamente coinvolto.
L’idea del film venne a Jean-Pierre Jeunet mentre si trovava in vacanza negli USA, con il cibo servito nell’hotel a suo dire scadente – e che ricordava, affermava ironicamente, della carne umana. Secondo altre fonti, Jenuet viveva sopra una macelleria e, ogni mattina alle 7, sentiva il rumore dei coltelli del titolare (il che viene anche riprodotto all’inizio del film). Alla sua fidanzata venne in mente che, prima o poi, sarebbe arrivato il loro “turno” di finire macellati.
Firmato dalla elaborata e studiatissima regia di Marc Caro e Jean-Pierre Jeunet, Delicatessen è un film grottesco dai tratti surrealisti, un’accoppiata che solitamente funziona e che, anche in questo caso, non fa eccezione. L’aspetto surrealista non è incidentale, ma molto ben studiato: basti pensare al modo in cui sono orchestrati i rumori del palazzo, a cominciare dal cigolio delle molle del materasso (il cui suono va in sincrono con la musica della violoncellista, quello di Luison che dipinge il soffitto e così via), da un semplice campanello (che suona contemporaneamente alla macchina da cucire di una delle inquiline) e così via. Espedienti tipici, ad esempio, del cinema di Svankmajer.
C’è ampio spazio per l’amore platonico tra Luison e la figlia del macellaio, osteggiato dal cinismo di quest’ultimo e dalla sua marcata avidità. Anche a livello architetturale, del resto, l’edificio + ben congegnato: a parte poter comunicare con i sotterranei (con i Trogloditi, ribelli & naturalmente vegetariani), c’è un tubo che attraversa i vari appartamenti, in barba a qualsiasi privacy, mediante il quale il macellaio può sentire tutto quello che avviene all’interno. Molte situazioni del film, poi, anche le più potenzialmente cruente, sono animate da uno spirito da film comico modello slapstick e, come se non bastasse, di humour nero decisamente raffinato.
Anche le tecnologie sono dichiaratamente surreali, e si ispirano all’immaginario steampunk caro ad esempio Terry Gilliam, e basterebbe citare a riguardo l’australiano (una sorta di pugnale-boomerang) e naturalmente il rilevatore di stronzate: un dispositivo con un piccolo perno, che ruota e suona non appena ne sente una (quella usata per testarlo, naturalmente, non poteva che essere quant’è bella la vita). Lo stesso Gilliam, con la sua tipica umanizzazione dei protagonisti e disumanizzazione degli ambienti, non avrebbe sfigurato alla regia, tant’è che negli USA il film uscì come “presentato da Terry Gilliam“.
Luison, personaggio archetipico del sognatore incompreso (molto alla Gilliam anche lui, in fin dei conti), coivolge e crea empatia con il pubblico, mostrando un ingegno fuori dal comune per uscire dalle situazioni più disperate. Ma è soprattutto l’intelligente humor nero ad essere l’arma segreta legata al successo del film, che ironizza parecchio sull’attrazione e sugli amori più improbabili, perchè in fondo – citando letteralmente una sequenza – un australiano conficcato in testa è sempre meglio che le corna.
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