Guida pratica all’allarmismo (e come contenerlo)

Viene indicato col termine tecnico fear-mongering: si potrebbe tradurre come politica del terrore, o più banalmente con la parola allarmismo. Secondo la Treccani consiste nella tendenza ad allarmarsi o ad allarmare; azione o comportamento che mira a creare artificialmente (e per lo più allo scopo di ottenere un preciso risultato) un clima di tensione.

Secondo la biologia (e la psicologia evolutiva), non è casuale la sua presenza sulla faccia della terra: l’allarmismo risponde ad una necessità concreta, antichissima – quella di consentire alla razza umana di accorgersi dei pericoli, in modo da avere maggiori possibilità di sopravvivenza. Oggi, del resto, lo sappiamo fin troppo bene: l’allarmismo non è solo un programma politico, ma è uno stile comunicativo che utilizziamo anche nei dibattiti quotidiani, a volte inconsciamente altre sulla falsariga di una eccessiva esposizione sui mezzi di informazione digitale.

Al tempo stesso, il fenomeno del fearmongering – per i motivo psico-biologici di cui sopra, da non potere nè dover sopprimere – ha finito per rivoltarsi contro l’umanità, venendo utilizzato da molti personaggi più o meno carismatici a titolo di arma psicologica vera e (im)propria. L’allarmismo sposta pareri, polarizza le opinioni, esaspera anche il razionalismo più convinto ed è, in altri termini, un modo per agitare modello moto browniano l’opinione pubblica. L’attenzione che dobbiamo ai mezzi di comunicazione informale è diventata spropositata, peraltro, negli ultimi anni; motivo per cui  naturalmente piace agli inserzionisti, a chi investe in pubblicità, seguendo la falsariga della cosiddetta attention economy, l’economia dell’uso ed abuso dell’attenzione umana, tipica anche di varie truffe e spam online.

Il fearmongering è ormai tipico sia della comunicazione alternativa che di quella mainstream, è subdola quanto potente, condizionante. Non solo, rischia di avere effetti devastanti sulla psiche e sul modo di pensare e decidere: in parte essi sono dimostrati da vari esperimenti psicologici, sia a livello incidentale che malizioso (vale la pena leggere degli inquietanti esperimenti manipolativi segnalati nel libro Irrazionalità di Stuart Sutherland, così come quelli contenuti dentro Paranormale di Richard Wiseman). Ed è qui che si accedono vari motivi di interesse in merito: una delle ipotesi più accreditate, ad esempio, parla della possibilità della cosiddetta mean world syndrome, traducibile come sindrome del mondo malvagio (su cui torneremo in seguito).

L’induzione di paura collettiva immotivata può essere considerato (almeno in larga parte) un bias cognitivo e, come tale, potrebbe spingere le persone a darsi le priorità sbagliate, o comunque viverle in modo sproporzionato (della serie: teniamo i figli sempre a casa per paura che venga rapiti, ignorando completamente i pericoli dovuti agli incidenti domestici). Parte del fearmongering viene in genere associato – secondo la curiosa teoria della regalità, che potete approfondire liberamente a questo link – a crescenti simpatie per mentalità autoritaria, intolleranza, cultura punitiva e financo desiderio di essere governati da un dittatore (!). Secondo l’antropologo e informatico Agnes Fog, autore della teoria, le stesse persone, in condizioni più ordinarie o di serenità generale, propenderebbero per puro contrappasso per un governo egualitario e tollerante.

Daisy

È impossibile parlare di allarmismo senza citare il tormentone “You don’t hate children, don’t you” inventato dall’episodio Probably di South Park, in cui Cartman diventa un predicatore religioso  mentre gli altri amichetti si impegnano per promuovere le piccole attività, demonizzando al contempo le multinazionali. Per operare in questa direzione, lo spot politico a cui vengono fatti partecipare è grottescamente becero e strumentale: mostra i bambini che elogiano la bellezza dei piccoli negozi artigianali a gestione domestica, per poi criminalizzare chiunque non sia d’accordo con loro. Votate sì al referendum, si conclude, altrimenti odiate i bambini: e voi non odiate i bambini, vero?

È possibile che Parker e Stone si siano ispirati, nel girare quello spot che satireggia un preciso fear-mongering politico e sociale esasperante, quanto in voga ancora oggi (oltre che attualissimo: quante volte abbiamo visto un politico minacciare l’apocalisse, se non fosse stato eletto?), ad uno degli spot elettorali presi ad esempio emblematico del fenomeno. Stiamo parlando di Daisy, del 1964, girato per la campagna presidenziale di LBJLyndon B. Johnson, diventato in seguito 36° Presidente degli USA (dal 1963 al 1969).

Ci troviamo in un’atmosfera inizialmente bucolica (con tanto di cinguettio degli uccellini), e vediamo una bambina inquadrata mentre tiene in mano un margherita. Dopo che ha strappato i petali contandoli uno per uno, parte un inquietante countdown che culmina con un’esplosione nucleare, e il seguente messaggio apocalittico (che sembra tratto da un mockumentary o falso documentario, ma si tratta storia realmente avvenuta):

Questa è la posta in gioco: creare un mondo in cui tutti i figli di Dio possano vivere, oppure finire nell’oscurità. Amarci, o morire.

Un’altra voce aggiunge, in conclusione:

Vota per il presidente Johnson, il 3 novembre. La posta in gioco è troppo alta perchè tu rimanga a casa.

È evidente che gli ideatori dello spot temessero l’astensionismo e abbiamo sviluppato un marketing politico basato sulla diffusione del panico, tanto più che lo spettro della guerra nucleare aleggiava da tempo, in quegli anni. Da tempo i media, del resto, competono sul numero di copie vendute (oggi più che altro sul numero di click) in termini di spettacolarizzazione dell’informazione, polarizzazione dei pareri, spazio concesso a improbabili carnèadi (alcuni sembrano usciti dai film della Troma: farebbe ridere, se non ci fosse da piangere). E poi, ancora: conflittualità attaccabrighe su temi etici, sanitari o sensibili, esasperazione degli animi, istigazione perenne a incazzarsi (anche senza sapere perchè), gaslightining nei confronti di chi esorta alla calma, post verità assortite, negazionismo come refugium peccatorum. Qualsiasi cosa, insomma, anche a costo di inventare notizie di sana pianta, come abbiamo constatato anche in Italia a più riprese con becere fake news diffuse direttamente dagli account social di alcuni politici.

Visto oggi, in effetti, Daisy fa meno sorridere di quanto sarebbe riuscito anni fa – e per fortuna che ci sono Parker e Stone che li hanno, quantomeno, un po’ presi in giro.

Foto di Lyndon Baines Johnson, tratta da https://en.wikipedia.org/wiki/Lyndon_B._Johnson

“ognuno pensa solo a se stesso”: ecco la (controversa) Mean world syndrome

Nei primi anni 80 il docente di comunicazione George Gerbner elabora la teoria della coltivazione, osservando gli effetti provocati dall’esposizione a livello alto, intermedio e basso al mezzo televisivo da parte di alcuni gruppi di volontari. Ne fuoriesce una teoria controversa (e generalmente poco accreditata) detta mean world syndrome, la sindrome del mondo malvagio: la tendenza di alcune persone a considerare il mondo più infido e malvagio di quanto non sia, sulla falsariga del bombardamento mediatico e della diffusione di fearmongering. Vari studi di scienze sociali darebbero ragione a Gerbner (la American Academy of Pediatrics, ad esempio, così come uno studio del 2018 dell’Università dell’Oklahoma, che cita anche i social media quali vettori di diffusione, sia pur senza riuscire a quantificarli), associando ad una maggiore esposizione di TV violenza e messaggi antisociali un incremento di paura, ansia, rabbia, disturbo post traumatico, uso di droghe e depressione.

Nel 2010, poi, la Media Education Foundation (nota per aver creato un collage di video musicali di MTV che riportavano riferimenti violenti o sessisti, in seguito diffidati dall’emittente) pubblica un documentario dal titolo The Mean World Syndrome: Media Violence & the Cultivation of Fear, al momento non disponibile su alcuna piattaforma, se non mediante la connettività di università e librerie selezionate. Il documentario è incentrato sulla cultivation theory e contiene interviste a Gerbner da parte di Michael Morgan. In definitiva, la valenza della teoria resta dubbia, per quanto sia curioso osservare che una teoria simile (la TV che provoca direttamente violenza) sia stata teorizzata almeno in parte da Videodrome di David Cronenberg (in chiave razionalista e organica, peraltro), ma restiamo cautamente scettici sulla sua scientifica applicabilità. Le scienze di oggi, del resto, suggeriscono che

1) nulla è mai veramente causa di tutto (si veda a riguardo il libro Irrazionalità): se i media causano effettivamente psicosi e malumori a lungo termine, basterebbe spegnerli o limitarli per risolvere il problema, ed avremmo già risolto da un pezzo la sopravvalutazione innata che soffriamo verso il fearmongering;

2) non bisognerebbe mai confondere correlazione con causalità: in altri termini, se è vero che tante persone si fanno condizionare dalla TV secondo una relazione causa = TV ed effetto = malessere (ovvero: la sovraesposizione televisiva causa malessere), è altrettanto probabile che quelle rilevate da Gerbner siano solo correlazioni statistiche, non relazioni causa-effetto (anche in questo caso, è un bias cognitivo noto).  Senza contare che potrebbe esserci una inversione causale di mezzo, per cui i termini effettivi potrebbero anche essere: causa = malessere, effetto = TV (ovvero: guardo qualcosa di banale in TV per non pensare al mio malessere).

Photo by Elena Koycheva on Unsplash

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