Anno 2077: nonostante la potente offensiva sfoderata dagli alieni contro il pianeta terra non ottiene il successo sperato, in quanto l’essere umano vince la guerra. La Terra ne esce totalmente distrutta: uno scenario apocalittico nel quale tutti i reduci vengono trasportati su una stazione spaziale. Sarà una coppia di giovani tecnici ad occuparsi del recupero delle ultime risorse d’acqua, per poter in seguito migrare su Titano – pianeta promosso a nuova casa per i sopravvissuti.
In breve. Tra le piccole migliori perle fantascientifiche proiettate sui grandi schermi negli ultimi 10 anni, Oblivion non può essere definito un capolavoro, ma si presenta come un film d’azione dai particolari eccellenti. Ornato da sprazzi di sottile ironia, e condito da una piacevole inclinazione al sentimentale che non prende in nessun momento pieghe troppo romanzate, è un’ottima avventura in cui il mondo reale s’intreccia alla perfezione con quello alieno, al punto di non sapere più a cosa e a chi credere.
Di base un racconto di sole dodici pagine, che il regista statunitense Joseph Kosinski aveva appuntato su un’agenda nel 2005: nel concreto un insieme esplosivo di effetti speciali, colonne sonore e cast invidiabile, proiettato davanti agli occhi di milioni di persone in tutto il mondo, nel 2013. Merito di tale risultato va ai 120 milioni di dollari stanziati al fine di creare un ambientazione post-apocalittica, ma al contempo tersa, di un certo livello. A partire dalle riprese praticate ai paesaggi reali dell’Islanda (e in differenti città statunitensi) combinate agli effetti speciali, continuando con lo straordinario cast e le colonne sonore degli M83, Pink Floyd e Rolling Stones. Di grande intensità è anche il titolo del film, che già dal principio innesca quella sensazione di equilibrio precario, tipico di alcuni efficenti plot point.
Nonostante i momenti di suspance e i grandi effetti visivi, c’è da ammettere che il contenuto di Oblivion non sempre rispetta nella sua trama quell’atmosfera mozzafiato che ci si sarebbe aspettati dalle premesse iniziali, osservando la visuale meticolosa, caratteristica che pervade ogni elemento del film: casa, mezzi di trasporto, droni e paesaggi. A far recuperare punti alla storia è la grande ventata d’umanità frequentemente percepibile, che contrasta la glacialità distruttiva aliena.
Il gioco di squadra è uno dei punti centrali della storia, elemento grazie al quale non manca di certo il fattore emotivo. Tale sensazione, mista ad un alone di mistero, viene suscitata fin da subito anche dagli strani flashback che, fin dall’inizio, il protagonista Jack Harper (interpretato da Tom Cruise) ha di una donna, con cui sembra aver avuto in qualche modo a che fare in passato, ma di cui non ricorda nulla. La razionalità prevale rispetto ai ricordi sfumati che il tecnico spaziale continua ad avere, dal momento in cui si rende conto che, nonostante la guerra sia stata vinta dagli esseri umani, c’è ancora presenza di alcuni Scavengers sulla terra (è così che i protagonisti chiamano gli alieni).
Ricondotto alla realtà degli eventi, Jack si lancia in diversi e rocamboleschi viaggi per via aerea e via terra, scoprendo sorprendenti verità che lo porteranno a confermare la sua insicurezza in merito al trasferimento su Titano, una volta terminata la missione. Come accennato inizialmente, Jack non si trova solo ad affrontare quest’impresa di recupero delle ultime risorse attingibili dal pianeta Terra, è Victoria a fargli compagnia e a sostenerlo con grande rigore e spirito di collaborazione durante tutta l’operazione. Questo personaggio, viene infatti illustrato dal regista come una figura forte, sicura di sè e della relazione intrattenuta con il protagonista; figura che cade in pezzi (inaspettatamente anche a se stessa) al giungere di una nuova figura, quella di Julia, un’astronauta della NASA, passeggera della nave spaziale Odissey inviata nello spazio per esplorare la luna più grande di Saturno, Titano.
L’irruzione di questo personaggio, già visto precedentemente nelle visioni di Jack, lascia i protagonisti e lo stesso pubblico di fronte ad un forte senso di sospensione. La confusione generale viene provocata inizialmente nel protagonista dalle rivelazioni sconvolgenti che Julia gli proferisce – e successivamente in Victoria, nel notare l’incredibile intesa che c’è tra i due fin dal primo momento. Il format che Kosinski cerca di dare al suo film è sicuramente quello di un romanzo fantascientifico-avventuroso, una missione alquanto ardua viste le premesse di diversa fattura dei tre generi narrativi. Con l’obbiettivo di riuscire nell’impresa di amalgamare i tre generi, il direttore artistico s’immerge con tutto se stesso nel racconto e nella rappresentazione del suddetto, per poter rendere al meglio tale idea, rivestendo la triplice funzionalità di regista, sceneggiatore e produttore. A tal proposito, è doveroso allora aggiungere a tutto il discorso, una lista di meriti e demeriti assegnabili a Kosinski per quest’opera cinematografica.
Sicuramente mirevole il fatto di aver creato una figura antagonistica lontana dalle fattezze di un cattivo evidente e da quelle dell’anti-eroe. L’antagonista kosinskiano viene ben nascosto dall’eterogeneità dei componenti della storia, opportunamente accostati tra di loro, fino al punto di distrarre lo spettatore, catturato dalle sfumature del contesto circostante. Malgrado questo punto a favore, una nota di demerito che potrebbe risultare paradossale va osservata, e riguarda nello specifico l’ultima parte della trama. Il film, che gode anche della partecipazione di un interprete di fama mondiale ovvero Morgan Freeman, manifesta una caduta di stile proprio nel momento in cui entra in scena il famoso attore statunitense. Non solo la figura del suo personaggio (Beech) sembra non raggiungere lo stesso valore degli altri personaggi interpretati da Freeman nella sua carriera (cosa che sicuramente avrebbe conferito al film una maggiore intensità a livello di contenuti), ma è questo l’esatto momento in cui la trama ed il suo finale diventano abbastanza ovvie e, di conseguenza, meno avvincenti rispetto al principio.
Sebbene le critiche negative possano sembrare eccessivamente esigenti e severe, c’è da dire che Kosinski come “novizio” nel mondo della direzione artistica (essendo Oblivion il suo secondo film di cui è regista, precedente ad esso solo Tron Legacy) è riuscito comunque a creare una storia affascinante dall’ottima parte visuale che colma, in qualche modo, le lacune della sceneggiatura.
Silvia Pantò è studentessa in Scienze Filosofiche presso l’Università della Calabria, attualmente in procinto di terminare gli studi. Vive a Valencia, e collabora con la libreria nonché casa editrice internazionale El Doctor Sax, ricoprendo le mansioni di libraia e traduttrice di testi.