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Ro.Go.Pa.G.: un viaggio a episodi tra sesso, separazione, fame e consumismo

Film diviso in quattro episodi a se stanti, ognuno diretto da un diverso regista: Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini e Ugo Gregoretti.

In breve. Un classico che rientra nella consolidata tradizione dei film a più registi e a episodi, dalla confermata attitudine socio-politico-satirica.

4 cortometraggi incentrati su quattro argomenti diversi: sessualità, separazione, fame e consumismo.  A ben vedere, due coppie di opposti che finiscono per creare un immediato gioco di contrasti, tra la gioia apparente del sesso alla frustrazione per la conquista fino al dramma della gelosia e della separazione. E naturalmente le psicosi moderne, da quelle indotte dal consumismo a quelle di natura sociale. Se ci mettiamo la società del boom economico allora nascente (il film è del 1963), il contesto diventa fondamentale per inquadrare l’importanza del lavoro, esattamente così come viene presentato.

Lavoro che, per inciso, nasce da un’idea dei produttori Angelo Rizzoli, Alfredo Bini e Alberto Barsanti che decidono di chiamare il progetto Ro.Go.Pa.G. dalle iniziali dei quattro registi coinvolti, dando ad ognuno massima libertà espressiva. In questi casi i risultati tendono ad essere altalenanti, proprio perchè manca un filo conduttore, cosa che in questo caso non succede anche perchè è relativamente agevole identificarne almeno uno (quello nichilistico, su tutti). Quattro storie contemporanee, moderne per l’epoca in cui uscirono, incentrate su una tematica sociale o politica precisa, e caratterizzate da un artista ormai rassegnato – e nichilisticamente sconfitto – dal conformismo imperante.

Illibatezza (Rossellini)

L’episodio di Rossellini è forse il più immediato dei quattro pur mostrando, per la verità, una tematica impegnativa: il celebre complesso di Edipo proposto da Sigmund Freud, qui concretizzato nella storia di un americano alcolizzato, che durante un viaggio di lavoro si invaghisce di una hostess italiana, iniziando a seguirla ovunque e comportandosi grottescamente come un bambino che reclama la figura materna. Sarà l’intervento di uno psichiatra a lenire le pene della ragazza, grazie alla brillante proposta di passare da un personaggio di mora dall’aria affidabile a femme fatale bionda, riconquistando il fidanzato geloso (un calabrese stereotipato che tende, tuttavia, a parlare in siciliano) e respingendo così definitivamente le asfissianti avance dell’americano. Un micro-episodio d’epoca su un boomer ante litteram, che inizia a stalkerare (diremmo oggi) la bella e giovane hostess Anna Maria, arrivando a raggiungerla nella sua stanza d’hotel di soppiatto, ed inscenando patetiche sceneggiate pur non farsi cacciare. L’effetto grottesco è garantito, soprattutto per la determinazione insospettabile della donna.

È evidente la tematica dei tempi che stanno cambiando, delle persone radicate nella tradizione che avranno maggiori imbarazzi ad accettare il cambiamento di valori del prossima a venire Sessantotto, di una esplosiva emancipazione femminile e dell’avvento, nella società italiana, delle più classiche teorie psichiatriche e psicologiche, destinate – di lì a breve – a pervadere qualsiasi ambito.

Il nuovo Mondo (Godard)

Il corto di Godard è probabilmente il più filosofico e basato su sottintesi, e non è proprio immediato comprenderne il senso: lo stile narrativo si ispira alla più classica Nuovelle vague (la nuova onda del cinema francese, quella nata nel 1957), ma probabilmente c’è qualcosa anche da L’amante di Harold Pinter, una piece teatrale dell’assurdo uscita appena un anno prima (1962), nota quest’ultima per l’incipit che è passato allo storia: un marito chiede amorevolmente alla moglie “Viene il tuo amante, oggi?“, la moglie annuisce, la coppia discute l’evento come se fosse una cosa qualunque.

Nulla di troppo diverso, in effetti, da ciò che succede tra il protagonista (di cui non sappiamo il nome) e Alexandra, una giovane donna innamorata e ricambiata dall’uomo. Viene poi mostrata la prima pagina di un quotidiano, che annuncia vari esperimenti atomici a 120.000 metri sotto la città: non erano trascorsi nemmeno venti anni dalla tragedia di Hiroshima e Nagasaki, per cui l’evento dovrebbe fare scalpore, provocare preoccupazione. Il problema è che sembra passare indifferente alla popolazione, nessuno ne parla: questo per quanto l’evento sembri aver innescato (mediante modalità non esplicitate) una mutazione profonda, non nei corpi ma nel comportamento umano.

È il protagonista ad rendersene conto: da’ appuntamento ad Alexandra che, presumibilmente per la prima volta, non si presenta. Informatosi presso un vicino, va a trovarla in piscina, e la vede baciare e abbracciare una persona (che poi svelerà di non conoscere affatto). Alexandra diventa così scostante, illogica, sembra smarrirsi in un vaneggiamento perenne senza capo nè coda, da’ risposte contraddittorie ed afferma più volte al compagno “io ti ex-amo“, pur accettando di rimanere a dormire da lui quella sera.

Convintosi di un collegamento indiretto con l’esperimento nucleare (e dell’annessa disumanizzazione), l’uomo scrivere le proprie memorie, nella speranza che qualcuno dei posteri possa capirne il senso. Il film termina dopo aver mostrato la penna del protagonista prendere appunti, non prima di aver mostrato a più riprese vari parigini che attraversano la scena ingerendo delle pillole.

Le musiche sono i quartetti per archi di Ludwig van Beethoven (n. 7, 9, 10, 14 e 15), e l’apocalisse è servita.

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La ricotta (Pasolini)

Una troupe sta girando, diretta da un regista dai modi caustici (interpretato da Orson Welles), una riedizione della Passione di Cristo in chiave artistico-concettuale. Ci troviamo nella campagna romana, ed emerge da subito la figura di Stracci, la comparsa che interpreta il ladrone buono nella scena della crocifissione. Pasolini rappresenta questo personaggio in modo simile allo Zanni portato sulle scene (e reso celebre) da Dario Fo: legato alla terra, dalle movenze grottesche, dedito ai travestimenti per avere doppia razione di cibo e, naturalmente, perennemente affamato. Dopo che il cane di una vanitosa attrice gli ha sottratto il cibo da lui gelosamente nascosto e accumulato, decide di venderlo all’insaputa della donna ad un giornalista di passaggio. C’è tempo per uno splendido siparietto tra il mediocre giornalista e il colto regista, con il primo che cerca di intervistarlo mediante domande banalotte ed il secondo che afferma la propria natura marxista, legge una poesia tratta da Mamma Roma (libro proprio di Pasolini, che l’uomo ovviamente non capisce), lo sminuisce e lo insulta con eleganza. E si arriva poi al clou della storia: Stracci viene scoperto nella grotta in cui sta accumulando il cibo, viene deriso dalla troupe ed invitato a mangiare pantagruelicamente. Col risultato che avrà un malore proprio mentre impersona il ladrone e si trova sulla croce, impossibilitato a pronunciare la battuta finale mentre il regista ne constata gelidamente la morte.

È difficile discutere ogni singolo aspetto di questo piccolo capolavoro di Pier Paolo Pasolini, intellettuale a tutto tondo che subì un vero e proprio boicottaggio, per questo corto, e si arrivò ad una condanna censoria per vilipendio alla religione. Si ebbe poi un’amnistia, ma nel frattempo il regista aveva già fatto delle modifiche definitive all’audio e alle scena. Aveva, ad esempio, dovuto cambiare la frase finale da “crepare… è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione” a un più innocuo (e forse non meno significativo, in un certo senso) “non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo“, e certe sequenze considerate inopportune vennero tagliate (la versione su Amazon Video del film sembra essere, in teoria, quella senza tagli).

La ragione della censura, del resto, sembra oggi difficilmente riconducibile a vilipendio, anche perchè se si fosse applicato questo criterio uniformemente, più della metà degli horror successivi non sarebbero mai circolati in Italia. Il problema de La ricotta è probabilmente nella sua valenza politica diretta e senza filtri, nel suo saper usare la Satira portando il sacro a livello del profano (la maschera tragicomica di Stracci, lo spogliarello dell’attrice che interpreta la Maddalena), nelle pose plastiche degli attori sotto la croce per cui sbagliano a mandare la musica e, come se non bastasse, scoppiano tutti a ridere durante le riprese, nella sua brutale constatazione inerenti divisioni sociali sempre più nette, nel dialogo (mai abbastanza citato) tra i due attori che interpretano i ladroni, in cui quello che afferma di essere tentato di bestemmiare viene frenato dall’altro, che poi lo biasima per essere un “morto di fame” che resta, nonostante tutto, dalla parte dei padroni.

La questione è complessa da affrontare, e ci limiteremo a scrivere che c’è una questione di irrisolti politici da sempre, a riguardo, oltre a molteplici imbarazzi e lacune che sono culminate, purtroppo, con la morte prematura del regista (nel 1975) e miriadi di teorie, ipotesi più o meno credibili e presunti complotti su come siano andate realmente le cose.

Il pollo ruspante (Gregoretti)

Da un lato, un sociologo ospita un convegno assieme a vari “pezzi grossi” della società (ingegneri, dirigenti, presidenti, politici), usando un laringofono per parlare – il che gli conferisce un’inquietante voce robotica. Racconta delle ultime scoperte in ambito psicologico e sociologico sull’induzione all’acquisto da parte dei consumatori. Dall’altro, vediamo un padre che firma più di venti cambiali pur di avere una TV di ultima generazione: i suoi figli sanno le pubblicità a memoria e la moglie è perennemente frustrata. I due coniugi inseguono affannosamente il Consumo: valutano di comprare un terreno che già sanno di non potersi permettere, vogliono già cambiare la televisione dopo averne comprata un’altra di recente, acquistano miriadi di prodotti inutili in autogrill, si conformano ai modi dei fast food millantando di conoscere (da cui il titolo) la differenza tra polli di allevamento e polli ruspanti. Finalmente si distaccano da quel modello malsano di finto benessere, in una doccia fredda di consapevolezza, e pensano di poter vivere diversamente. Ma è troppo tardi: Togni si distrae alla guida ripensando ai terreni perduti e muore, presumibilmente con tutta la famiglia, in un frontale.

Si tratta dell’episodio forse più politico e sovversivo in assoluto, con un Ugo Tognazzi sempre in splendida forma, per un cortometraggio sulla perfetta falsariga di quelli visti ne I mostri oppure in Signore, signori, buonanotte.

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