Sanremo sì, Sanremo no, Sanremo gnamme, se famo du spaghi
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Una meravigliosa battuta di Spinoza che ho recuperato dai vituperati ricordi del mio account Facebook recitava pressappoco così: Sanremo è un continuo oscillare tra “questo ancora campa?” e “questo chi cazzo è?“. Cosa che magari farà anche ridere di riflesso, ma è profondamente vero. Nel senso, ok, Sanremo lo abbiamo visto anche quest’anno – perchè ci hanno costretto, di fatto, a farlo, perchè ne parlano tutti e perchè se non lo fai sei uno snob antisocial(e) gni gni gni, ma ne avremmo lo stesso fatto volentieri a meno, forse.

Tante cronache web raccontano l’appena trascorso Festival di Sanremo di quest’anno usando l’espressione “rito collettivo“, cosa che in effetti è stato (almeno, per certi versi). Il che dovrebbe possedere suggestivi echi antropologici, con gli studiosi che analizzano questo brano di questo artista che sai, signora mai, è addirittura attento ai diritti dei meno tutelati (che poi che ci frega di ste cose nella vita vera, l’importante è che ci sia qualcuno che ne parli, chiunque sia), sfoggia un qualunquismo perbenista ormai ammantato da echi hipster e radical chic, e soprattutto si presta bene all’attività preferita dagli italiani medi di provincia, ovvero commentare come si vestono gli altri.

Bisognerebbe parlare di musica ma boh, e poi ma chi se ne frega di come sono vestiti gli artisti di quest’anno. Guarderei Sanremo solo se qualcuno presentasse idealmente un brano originale del tipo “Fatevi i cazzi vostri, na volta tanto, che chi lo fa campa cent’anni e non è una fake news“, idealmente cantato da Faust’o o da Piero Ciampi – perchè davvero, la piega che ha preso oggi la musica italiana (qualsiasi cosa indichi davvero questa espressione) è mediamente superficiale, sconcertante, basato molto spesso su canzoncine spacciate per chissà cosa – e mi colpisce, ancora oggi, che non esista più alcuna distinzione (nè fattuale nè teorica o formale) tra rock, rap, pop, indie. Tutto buono, niente buono, tutto medio. Tutto sputtanato, definitivamente: pure l’eccesso, pure l’artista attaccabrighe ma simpatichello, inclusa la questione del comico che può far ridere con decisione ma con garbo (e solo se sta bene al politico di turno), e poi il fuori onda indiscreto, la polemica, la polemichina, la polemicuccia, quasi sempre costruite a tavolino – anche basta.

L’unica cosa che continuano a non portare a Sanremo sono i vari generi per certi versi difficili da coinvolgere, del tipo il progressive rock. Sarebbe anche interessante portarli ad un certo punto, anche per verificare se quell’ostentata apertura musicale del suo pubblico sia reale e per avere proof of concept del fatto che certi limiti concettuali sono stati abbattuti sul serio. Ostentare apertura al nuovo ignorando intere enciclopedie della musica, in altri termini, è un pochino fraccomodo. Un festival in cui sostanzialmente funzionano soltanto i surrogati dei generi, e fa comodo dire / scrivere / pensare che i generi stessi siano un retaggio da parrucconi rimasti negli anni 80 e 70 (cosa peraltro falsa, almen fin quando uscirà almeno un altro disco dei generi succitati degno di essere sentito: e, se servisse dirlo, ce ne sono tanti ancora oggi). Poi è chiaro che se fai questa critica in pubblico, ti abbattono: ecco, è arrivato il professorone, ma rilassati e torna a sentirti il tuo heavy metal di 600 anni fa –  per cui uno evita pure, a volte. Ma a parte la musica, vi pare modo di vestirsi, quello lì?

Si diceva del tono pseudo-intellettualistico e spesso saccente che ammanta un po’ chiunque (s)parli del festival: lo vedo fare a conoscenti ed amici sinceri conoscitori della musica e sì, in parte lo capisco pure, per quanto non riesca più ad interessarmi alla questione (ci ho provato, lo giuro, anche con la scusa di Elio che ci partecipò nel 1995). In un certo senso lo trovo culturale, certo, ma anche un surrogato di cultura, un qualcosa che non vale più la pena di discutere per quanto è visibilmente precotto, precostruito e poco accattivante, e anche per la misura mostruosa in cui è costretta ad affidarsi a tormentoni social pur di sopravvivere. Mi colpisce con quanta passione si scriva sui social e sui giornali di Sanremo, pipponi e papiri da farsi venire la tendinite per giorni. Chi ce la fa fare? E quanto è fregna X, e quanto è fregno Y, vestiti in quel modo sul palco di Sanremo poi, mmm.

Un mondo in cui – antropologicamente parlando – vediamo persone più o meno qualsiasi (per certi versi il manifesto dell’uomo qualunque andrebbe benissimo come manifesto programmatico) che raccontano su un social come la pensano su X, Y e Z visto o (raramente) sentito al festival. Per certi versi è anche normale e, sia chiaro e lo ribadisco, non mi appartiene lo snobismo saccente da “intenditori” di musica, che la musica vera la facevano una volta e che signora mia, non esiste più nessuno che faccia buona musica. Tutti pronti a trollare gratuitamente il prossimo malcapitato, a costo di ottenere i pluricitati 15 minuti di celebrità. Non la penso così e non è questo il punto, secondo me: il focus della questione è comprendere e riflettere su come ciò abbia più a che fare con lo showbusiness che con la musica. E col fatto che nell’era di internet, in cui scopriresti la musica da solo ogni giorno (non solo a ridosso di San Valentino), è deprimente che si facciano ancora selezioni basate sul consueto, stantìo retaggio già visto da decenni.

Sanremo è una manifestazione gigantesca e dall’ego altrettanto smisurato, ma non sono per la sua soppressione, sia ben chiaro; dico solo che non ha più a che fare con la musica di quanto il Super Bowl abbia a che fare con il campionato di serie A. Sono proprio due cose differenti, chi lo guarda non è certo musicofilo nel senso di appassionato medio di rock. Con l’eccezione di poche persone che amano onestamente quella musica nonostante, santiddio, sia ancorata sugli stessi ritornelli ripetuti all’infinito da decenni. Pero’ ad oggi credo pure che sia più una meta-manifestazione che una manifestazione musicale vera e propria. Voglio dire che è più ciò che si scrive su Sanremo che ciò che si sente, alla fine, e lo dimostra il fatto che io abbia scritto tutto questo senza neanche guardarlo (bel twist vero? E vi dirò anche che non sono il solo che ne parla, senza vederlo nè sentirlo). Perchè ormai so che è uguale agli altri anni, perchè altri anni ci ho provato invano e – con un paio di eccezioni considerevoli, che non cito solo per brevità – non mi è rimasto in testa nulla, tutte le volte che l’ho visto. Perchè è quasi inutile parlarne, secondo me, e la cosa mi rende tutt’altro che felice. Ai miei tempi era tutto meglio, ma non ricordo più cosa. Ma come si è truccato quell’altro lì?

Ed è proprio sull’attribuzione di questa (presunta? Teorica? Immaginaria?) ritualità – su cui chiunque ha sempre scritto papiri almeno dagli anni Cinquanta, rendendolo un “fenomeno” di massa – che ho qualche dubbio che si possa aver equivocato: se è vero da un lato, infatti, che è stato officiato un vero e proprio culto, e che la gente ama questa manifestazione anche (e forse ormai soprattutto) per i tormentoni e i meme che ne escono fuori (e non puoi certo fargliene una colpa), l‘effetto che Sanremo, da sempre, continua a provocarmi è quello del villaggio turistico in cui gli animatori cercano di coinvolgere forzosamente tutti gli ospiti, anche a costo di manipolare i tuoi amici che verranno lì a dirti di provare il gioco della bottiglia.

Tu stai al bar per i cavolacci tuoi dopo dieci ore di mare, hai solo voglia di un drink e la gente insiste a coinvolgerti nei giochi di gruppo perchè santiddio, gli animatori vogliono farci divertire, hai visto mai che ti diverti a vedere Sanremo, e fattela na risata figlio mio (questa frase va pronunciata con la voce di Maccio Capatonda, ovviamente), lasciati andare (qualsiasi cosa significhi) anche se non ti piacciono queste cazzate, adesso andiamo a giocare al gioco dell’apertivo e balliamo o ballo do cavallo con i tizi e le tizie attempate, che poi magari stasera si scopa pure (of course, nulla ci carica e ci motiva quanto la prospettiva di un amplesso, sia pur sapendo che rimarrà teorico in otto casi su dieci – dieci su dieci se sorridi, maledici gli amici in modalità passivo aggressiva e rimani maldisposto verso il contesto). Insomma, un po’ quella manìa che imperversò negli anni ’90 in cui ogni villaggio turistico aveva l’animazione e lo ostentava, nonostante venisse detestata dalla metà degli ospiti – salvo l’eroe anonimo che, nel camping dove andavo coi miei genitori da ragazzino, corresse con un pennello la scritta “camping con animazione” in “camping con RIanimazione“. Letta oggi, peraltro, avrebbe tutto un altro significato. Con la differenza sostanziale che non hai altra scelta, a meno di riportare il rock e gli altri generi meritevoli in TV mainstream o riesumare il glorioso festival di Sanscemo (ultima edizione, anno 2005).

Il discusso e criticatissimo (quanto efficace e competente, per quel che mi riguarda) critico musicale Piero Scaruffi, autore della prima vera enciclopedia del rock online, tuttora libera e gratuita, non certo l’altro ieri – probabilmente già nella metà degli anni Novanta – aveva dato una definizione caustica quanto efficace del Festival: Sanremo per lui non è altro se non un italico squallidissimo Festival di Sanremo, ovvero (scrive ancora nella sua scheda su Carmen Consoli) musica leggera mediterranea anni ’50 ossia musica napoletana fine ‘800 – inizio ‘900. Si può discutere ogni singolo dettaglio, se proprio si vuole, ma è difficile dargli completamente torto.  Te l’ha pure contestualizzato, in quel modo, e l’idea è che le cose purtroppo non siano cambiate, se non a sprazzi.

L’aggettivo italico è tutt’altro che casuale dato che, di fatto, indica qualcosa dell’Italia antica. Vecchio travestito da nuovo, ogni anno, in eterno. Guai pero’, ad oggi, a pensare che il festival sia ad esclusivo favore del pubblico boomer che rimpiange Nilla Pizza, i Deep Purple o i Righeira (fate voi): il festival è entrato nel linguaggio dei contemporanei, dei ggiovani che poi a volte ti aprono pure il dibbattito. No, il dibattito no, avrebbe detto a questo punto Nanni Moretti.

Il motivo per cui Sanremo è una manifestazione a mio parere poco focalizzata (per usare un eufemismo e, lo ribadisco, senza nulla togliere alla necessità degli artisti di lavorarci e/o di andarci) perchè parla e sparla di musica, ma ha ormai finito per farlo in modo meta-musicale, per sentito dire: insomma ha poco a che vedere con la musica, ed è abbastanza grottesco. E non serve essere fan del Gods of metal per capacitarsene: serve ragionare sul format, sul DopoFestival, su pre-post che anticipa quelle benedette canzoni che poi occupano così poco del nostro tempo in cui lo guardiamo. Questo non lo dico io, almeno per l’idea che mi sono fatto: lo dice la realtà delle cose, ed il fatto che ciò che passa di Sanremo sono i meme, che arrivano nel 99% dei casi anche a chi il festival manco l’ha visto col binocolo. Tipo me, insomma.

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