Sam Dalmas, scrittore italo-americano, lavora a Roma in un istituto di scienze naturali. Alla ricerca di un po’ di tranquillità ed ispirazione per il proprio lavoro, assiste – dall’esterno della vetrata di una galleria d’arte – ad un tentato omicidio.
In breve. La consacrazione di Dario Argento come regista puramente thriller, prima che la parte più horror prendesse il sopravvento. Moderno ed incalzante ancora oggi, nonostante l’età.
Se c’è un elemento che ha reso celebre e difficilmente imitabile Argento è la precisione, il taglio chirurgico e quasi scientifico delle sue sequenze, in particolare dei numerosi omicidi rappresentati, dettagliatissimi, tetri e teatrali. Come già il successivo Quattro mosche di velluto grigio, del resto, già quest’opera prima possiede una forte plausibilità scientifica, nonostante la specie di uccello più volte citata Hornitus Nevalis neanche esista, nell’ornitologia. Il più volte citato “patto” tra regista e pubblico – secondo il quale quest’ultimo dovrà accettare tutte le scelte registiche, pena non godere affatto della visione – viene praticamente imposto, in questa sede, con la mano magistrale della sua macchina da presa. Script concepito in soli cinque giorni e film girato in circa sei settimane – i tempi brevi ed incisivi furono tipici del periodo, anche del primo Halloween di Carpenter, ad esempio. Nonostante questo il film fu discusso (a quanto pare) insistentemente col regista dal protagonista Tony Musante, quasi ossessionato dal tipo di caratterizzazione da dare al proprio personaggio. E sempre in tema film artigianali e di idee innovative che hanno fatto un’epoca, è impossibile non segnalare che la controfigura del killer, mai inquadrato se non durante la rivelazione finale ed operante spesso in soggettiva (quindi come se fosse lui il cameraman) è interpretato dallo stesso regista. La storia, per inciso, si basa vagamente sul romanzo La statua che urla scritto dallo statunitense Fredric Brown.
L’uccello dalle piume di cristallo fu anche una delle pellicole a registrare un record davvero notevole: riuscire ad essere proiettata in un cinema milanese per più di tre anni di fila. Una cosa impensabile, se ci si pensa oggi, nel clima guarda-e-getta che domina soprattutto in certo cinema di genere moderno.
Non c’è dubbio che, al netto della storia ben nota dell’inaugurazione della trilogia degli animali, ovvero Il gatto a nove code e Quattro mosche di velluto grigio, in questo film si veda uno stile argentiano ancora agli esordi, che spicca per una forte personalità ereditata, ovviamente, dai maestri del genere come Mario Bava. E vale per l’impianto visivo in sè e anche per l’aspetto narrativo, che vive di accenni, brevi idee suggerite, appenna sussurrate nell’oscurità: tra i vari indizi cosparsi nel film (i più attenti potrebbero notare il “dettaglio rivelatore” fin dai primissimi istanti, a ben vedere), un quadro inquietante che ha a che fare con il passato dell’assassino – questa idea sarà riportata ancor più splendidamente in Profondo rosso – ed alcune simpatiche ed efficaci macchiette, tipiche della commedia all’italiana: un pappone balbuziente che usa “addio” come intercalare, un pittore pazzoide (Berto Consalvi) che creano un gradevole chiaro-scuro con la vicenda cupa che viene raccontata, rendondo la visione del film più gradevole della media, oltre che vantare innumerevoli (e spesso fiacchi o poco riusciti) tentativi di imitazione.
Piuttosto che interrogarci sulla verità, siamo certi di esserci posti le domande corrette? È questo probabilmente l’interrogativo che Argento prova a sollevare in questa sede, e che ha collocato la pellicola, secondo il parere del critico Steven Schneider, tra i “1001 film da vedere prima di morire“.
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