Asphyx di Peter Newbrook parla di morte, anima e immortalità

The Asphyx

(distribuito anche come Spirit of the Dead e The Horror of Death, in Italia noto semplicemente come Asphyx), appartiene al sottogenere dell’horror gotico frammisto con discrete trovate steampunk e fantascienza vittoriana (sul modello de L’uomo venuto dall’impossibile, quantomeno come ambientazione).

Si tratta di un film del 1972 affidato alla sapiente regia di Peter Newbrook, interpretato da Robert Stephens, Jane Lapotaire e Robert Powell. Sul modello del Frankenstein di Mary Shelley, Asphyx è una storia gotica ad ogni effetto, per via della sua ossessiva narrazione improntata su quello che sembrerebbe il mito dell’ultimo sospiro. Sulla falsariga di quella che a breve sarebbe diventata fotografia spiritica, lo scienziato protagonista si dedica a singolari ricerche che espone ad una società parapsicologica di cui fa parte, in cui cerca di fotografare (e poi di filmare) una singola “aura” che apparirebbe, in forma di alone azzurrastro (e poi come spirito umanoide urlante) a fianco di ogni moribondo.

Si scopre in seguito che non si tratta proprio dell’ultimo sospiro, ma dell’asphyxìa, ovvero del prodotto psichico indotto dall’uomo che avverte l’incalzare della morte. Un po’ come l’anima, in fin dei conti, deduzione che induce l’ambizioso scienziato a provare a catturarla, inventando una trappola elettro-meccanica degna di un proto-Ghostbuster. La regia  di Newbrook funziona e lo stesso fa la sceneggiatura di Christina e Laurence Beers, determinando un buon horror fatalista ed incentrato sia sui limiti della scienza che, ovviamente, sull’aspetto romantico e filosofico legato all’immortalità. Sì, perchè Sir Hugo ha intenzione di sfruttare l’Asphyx per rendere immortale la propria famiglia, inclusa la figlia e il futuro genero. Il triangolo padre, figlia e genero determina quasi tutto l’andamento della storia, che per larga parte funziona e riesce ad accattivare, al netto di qualche (probabilmente ineludibile) forzatura e sequenza un po’ prevedibile o “telefonata”.

La triade può essere anche interpretata in chiave psicoanalitica, in effetti: se lo scienziato protagonista rappresenta la presunta infallibilità dell’Io, la figlia ne determina il Super Io con annessi scrupoli etici, religiosi e morali (tanto più che vuole sapere a più riprese della vera natura degli esperimenti, e se ne scandalizza), mentre il genero, figura ambigua e forse tra le più accattivanti della storia, è la natura selvaggia dell’istinto o Es, anche perchè accetta di collaborare agli esperimenti, arrivando ad esigere l’immortalità anche per se stesso. La ricerca dell’immortalità, chiaramente, in un horror non potrà che codificarsi in uno spettacolare fallimento, reso ancora teatrale dall’ambientazione vittoriana nonchè dall’aspetto più fatalista della trama (la cavia che rosicchierà il tubo di gomma necessario alla riuscita della “trappola” per l’asphyx).

Alla base dell’intreccio resta il tema dell’ambizione, dell’etica e della morale legata alle scoperte scientifiche, oltre ad un sottotesto romanticheggiante legato al tema dell’amore eterno (cosa che ci sentiamo quantomeno di ridimensionare, dato che l’amore eterno da due immortali ci piace solo se ci tratta di vampiri, altrimenti rischia di diventare una palla… mortale, neanche a dirlo), che forse non serve nemmeno troppo alla storia. Alla base di tutto, una figura di scienziato onniscente, in teoria felice della propria condizione quanto stremato dall’invecchiamento biologico del proprio corpo e condannato a vagare per il mondo come, ci viene in mente, il mitologico samurai Izo.

Non è agevole dare un giudizio netto su questo film: se molti aspetti sono considerevoli e certi schemi ricorrenti sorprendono per la loro efficacia, non si può non notare qualche aspetto forzoso: vedi la scena dell’incidente d’auto ai giorni nostri, collegata solo sul finale al resto della storia e forse, a dirla tutta, un po’ criptica e auto-indulgente, dato che il pubblico può non cogliere il nesso. La regia ed il livello degli interpreti, se si accetta il patto registico e si chiude un occhio su qualche momento un po’ troppo spento rispetto al contesto generale, rende Asphyx un film da riscoprire, tutto sommato, anche se abbastanza lontano dal capolavoro.

Da un lato intriga il mix tra steampunk vittoriano con la componente da horror gotico, ma l’improbabilità della trama tende ad oscillare un po’ troppo (se non addirittura ad aumentare, in certi frangenti) e lascia comunque un’eredità che molti altri film avrebbero colto. Tra cui un curioso corto di Terry Rossio, noto come Laboratory Conditions e frutto di un remake mai ultimato dalla Black & Blue Films nel 2009: il progetto partì, le riprese furono fatte ma i soldi, come a volte accade, finirono. Ne rimase solo un cortometraggio di circa un quarto d’ora, che ricalca pressappoco la stessa trama ma la ambienta al giorno d’oggi.

 

Nei titoli di testa si legge che la colonna sonora del film sarebbe stata registrata con un sistema quadrifonico a 4 canali, anche se non abbiamo ben chiaro cosa significhi e non troviamo documentazione a riguardo.

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