Perchè (non) vietare i social media ai minori


Vietare l’uso dei social media da parte dei bambini: un’ondata di regolamenti simbolici, ma a quale costo?

Una forte costante distopica è l’atteggiamento con cui la voce della pubblica opinione, foraggiata dal clickbait dei maggiori quotidiani, tende a presentare i social media tutti come strumenti ben peggiori di quanto non siano. Quando si tratta di minori, poi, il discorso diventa esasperato da logiche di protezione, spesso alimentate dalla buona fede quanto sostanziali nel loro incedere. Che i ragazzi siano soggetti a logiche attrattive e di dipendenza compulsiva dal mezzo è abbastanza evidente, e che a queste società interessi ben poco della loro salute e molto di più del loro profitto è altrettanto ovvio. Depressione, dipendenza, generazione di ansia sono le “manopole” che più spesso vengono sollecitate da questo genere di discorsi in media.

In alcuni stati USA come la Florida, ad esempio, gli account dei minori di 16 anni sui social media devono essere cancellati per legge, mentre in altri avviene che la registrazione possa avvenire solo sotto la stretta supervisione dei genitori. In Europa la situazione non sembra dissimile e sta diventando, per certi versi, una tecno-crociata vera e propria, quasi sempre (come di consueto) cavalcata a convenienza dall’opportunismo politico. Si vogliono anche qui limitare le iscrizioni (Francia e UK), vietare i telefoni cellulari nelle scuole (una soluzione che rischia di creare più problemi da gestire di quanti possa risolverne, su tutti: chi controlla e con quale frequenza/intensità?). E quel che sembra peggiore è l’aspetto pragmaticamente legato a situazioni che andrebbero chiarite o risolte, come ad esempio certa insistenza effettivamente presente in app come Tik Tok le quali, come anche certi aspetti di X, sembrano aggirare le disposizioni in ambito europeo pur avendo bacino di utenza fortemente europeo.

Al netto delle difficoltà tecniche nel fare questo genere di verifiche, c’è sempre la costante della privacy che diventa un valore secondario / terziario, e l’illusione più pericolosa è quella che vorrebbe poter controllare e gestire tutto mediante una “mano invisibile” paternalista e severa. Tanto nella peggiore delle ipotesi basta censurare e, come dire, passa la paura. La costante distopica impone tutto questo tecno-pessimismo, questa tecnofobia schizofrenica e sempre più marcata, feroce e diffidente, che alla fine dei conti fuorvìa dai reali problemi della rete (su tutti, l’anaffettività e la confusione ideologica che ci ha lasciato in eredità la pandemia di Covid-19, e che troppo spesso facciamo finta di non dover gestire). Di fatto, c’è un forte paternalismo in qualsiasi scelta politica riguardi i social media, spesso a costo di imbrigliare i problemi e renderli ancora più complessi. Caso tipico: i social network da rendere obbligatori con lo SPID, una pseudo-misura molto accattivante per alcuni che pero’ non tiene conto che così facendo affideremmo i nostri dati personali, custoditi da provider con requisiti stringenti ad oggi, ad aziende private prive di scrupoli quando non, per loro stessa orgogliosa ammissione, al di sopra di ogni regola e di ogni fiscalità. Dietro ogni potenziale abuso dei social dovrebbe risiedere sempre e comunque il diritto alla partecipazione, all’accesso e all’espressione di fatti e opinioni, allo sviluppo dell’identità, e a miriadi di privacy da tutelare.

Alcuni studi si sono concentrati, a questo punto, su quello che viene chiamato “determinismo tecnologico“, ovvero la credenza radicata e sedimentata che nelle nuove tecnologie risieda ogni male. Si ignora volutamente l’aspetto sociale insito nei social, le necessità di altra natura che vengono coperte dagli stessi, la possibilità di testare identità non pre-costituite (il che può far parte di una crescita personale sana), l’ulteriore opportunità di sentirsi meno isolati e darsi eventualmente supporto interpersonale. In un’ottica di neuroscienze, psicologia non ingenua e sociologia, è noto da tempo che i fattori individuali, personali e socio-culturali influenzano l’uso delle nuove tecnologie, mentre l’aspetto legato alla salute mentale viene troppo spesso imbevuto di retorica tecnofobica. Senza considerare il reale ruolo dei genitori e degli educatori, in tal senso, che dovrebbe essere quello di educare all’uso critico.

Per quanto possa suonare bene per alcuni – in primis addetti ai lavori, in modo molto diagonale, dai progressisti ai conservatori – è probabilmente l’assunzione (ontologica e non falsificabile) del considerare a priori i social media come droghe a doverci far riflettere e fare un passo indietro. Se diciamo questo, stiamo già dando una soluzione prima ancora di discutere il problema. Un qualsiasi approccio unico per ogni circostanza rischia, senza troppi sforzi immaginativi, di essere inefficace e poco sostanziale.

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