Sedici minuti


Ho fatto un sogno – prove aperte di un teatro romano – giovani interpreti vestiti di nero – andavo lì per vederli – capienza limitata – sala piena – sono in ritardo – ma poi perché sempre puntuali a teatro – mi affretto – punto la porta – la spingo – entro – che caldo faceva… – sono di intralcio agli attori che stanno per entrare – forse mi guardano male – mi chiedono di chiudere con gesti concitati – mi sento vagamente a disagio – il regista è seduto dal lato opposto – si avvicina a me passando dietro all’ultima fila – hai rovinato tutto – io rispondo: esagerato! – ma temo abbia ragione lui.

Lo spettacolo continua – qualcuno ride – sul palco va in scena una situazione paradossale, penso – forse lei che bacia lui che bacia lei che non bacia me, del resto un rapporto tra me e lei sarebbe transfert puro, come tra me e la mia psicologa, e poi tradisce lui che bacia lei che spinge lui – paranoia innata – silenzio in sala – non c’è posto – rimango in piedi – dignitoso – poi mi appoggio al muro – tocco  l’interruttore e la luce in sala si spegne – nessuno vede più nulla – fischi – noooo – il regista mi si avvicina di nuovo – ma è vestito come mia madre – mi rimprovera, come sua consuetudine – ciò che pensi non ti porterà mai a niente – allora cerco l’interruttore – accendo la luce – e sono nudo – tutti mi guardano – occhi sgranati – meraviglia – tutti mi fissano – sul chi va là – come gatti scoperti a saccheggiare la dispensa. Forse non era un sogno. Standing ovation.

È incredibile quante cose si possano fare in sedici minuti.

App social – piccola minuscola cosa – sovrappensiero – come spesso mi accade – interagivo con amabili sconosciuti su interessi in comune – eh sì, si parlava di libri  per me è un’ancora comunicativa irresistibile – certamente è meglio quando trovi disponibilità e propensione al confronto – quel giorno aveva pubblicato una foto con i suoi libri – ehi, sai che anche a me piacciono – io invece ho letto questo – provo a imbastire un dialogo – chissà non riesca a familiarizzare con lei – ma lei risponde “quell’autore non è un vero filosofo” – e mi blocco – vado indietro col pensiero – penso – quella volta in cui la vidi – era dolce e bellissima – ma era lì per lavoro – poi un giorno parla di musica – sto divagando, ne ho bisogno – commento sul suo profilo “anche a me piacciono gli Iron Maiden”- provo a imbastire il mio bel dialogo – fare un discorso con lei – fu gentile – non ci fu una chiusura vera e propria – ma non aveva tempo, testa, modo, voglia, coraggio, serenità, tranquillità, fiducia, slancio, fermezza, determinazione, forza, risolutezza, convinzione, ardimento, impeto, volontà, audacia, prontezza, calma, stabilità, convinzione, certezza, ardore, intraprendenza, risolutezza, motivazione, convinzione, entusiasmo, stabilità, perseveranza, volontà. Al netto di queste piccole mancanze sembrava andare tutto benissimo, alla grande!, così le ho scritto in privato – che ero grato per la sua apertura e che sì, io sarei andato al concerto, e mi avrebbe fatto piacere incontrarla se ci andava anche lei e prendere qualcosa assieme, ammesso che le andasse – ma niente, implicitamente non aveva tempo, testa, modo, voglia, coraggio, serenità, tranquillità, fiducia, slancio, fermezza, determinazione, forza, risolutezza, convinzione, ardimento, impeto, volontà, audacia, prontezza, calma, stabilità, convinzione, certezza, ardore, intraprendenza, risolutezza, motivazione, convinzione, entusiasmo, stabilità, perseveranza, volontà. O forse aveva già una famiglia, dei figli, un compagno e una vita sentimentale equilibrata. Ignaro della sua discendenza genealogica ho pubblicato sul mio profilo una foto sotto il palco, dopo qualche tempo lei ha commentato – per me inaspettatamente-  “daje“, e chi se lo aspettava, daje per me è diventata la cosa più bella – un ti amo stilizzato – un voglio stringerti forte mentre ascoltiamo quel pezzo che piace ad entrambi – per me è l’inizio di una relazione virtuale, al limite, ma forse non è successo, non è mai capitato, e chi se ne frega, alla fine, almeno ci ho provato.

Così apro la finestra – poi apro quella del browser – lancio app di dating – a questa dannazione di app che si chiama… si chiama… – non importa come si chiama – io non ho tempo di starci dietro – tanta gente, più burocratizzata socialmente di me, penso, mi ha garantito che questa roba funziona – e lo dicevano col tono degli spacciatori nei film di serie B – questa merda funziona- lancio uno script che inizia a mettere cuori a tutte, in automatico – perché dovrei fare a mano ciò che può fare tranquillamente una macchina, del resto? In questi casi prima o poi un match arriva – sperando che non sia di pugilato – e faccio il mio bel dating brute force – forza bruta – un micro-attacco informatico finalizzato a riempire il mio cuore svaligiato – alla peggio mi faccio bannare, ma chi se ne frega, alla fine, se succede bene se non succede sarà per la prossima volta, almeno ci ho provato. Qualche passo, fermarsi, fissare il vuoto, guardare avanti.

Era stato un giorno di sole e bel tempo – ciao, come stai? Tutto nella norma – la crush mi ignorava amorevolmente come al solito, quel giorno – e poi un’altra donna, forse un po’ più simile a me – se l’occhio non mi inganna – aveva risposto piccata ad una osservazione – che a me sembrava così equilibrata– aveva pubblicato foto di libri e sì, mi sembrava carino sottolineare che quel genere piacesse anche a me – e che leggevo anche io cose simili – sai, anche io leggo… vai capire – sembrava essersela presa – mi ribatte nel merito che quell’autore lì non era un vero filosofo, che cazzo – e io le rispondo con gentilezza – come cerco di fare un po’ con tutti, del resto – e non mi ha più risposto – fine della conversazione – era un inizio, un inizio di verbalizzazione morto sul nascere, un ennesimo flirt virtuale soffocato nella culla, l’inizio di un parlare che speravo potesse portarmi a scoprire – per non dire peggio –  ma chi se ne frega, alla fine, se succede bene altrimenti pazienza, se non altro ci ho provato.

E poi finalmente – lampo improvviso – nel flusso di dati – aveva scritto “che bono” – bono era riferito a una foto che aveva commentato – e questa cosa mi ha deluso – preoccupato – depresso – per la parola “bono”, in primis, che trovo insopportabile – un residuato sintattico anni Novanta che dovrebbe sparire – bono e bona sono termini che puoi riferire al più al carciofo romano e alla carbonara – e neanche sempre – ma forse il problema era che non lo aveva detto a me – che da tempo che le provavo tutte – volevo uscire con qualcuno – volevo uscire dai muri di una stanza che continua a fissarmi indifferente – e poi un giorno qualcuno mi ha detto che non siamo mai veramente soli – e questo perché ci facciamo i nostri bei discorsi in testa – in ogni momento – non ero solo – ero sul tram – e ripensavo ad una mediocre prova aperta che avevamo visto – mi lamento con l’amico del vuoto esistenziale – fisico, magari lavoriamo troppo – e mi blocco, vado in stand by, errore di sistema, non riesco a riavviare.

Fuori, dentro a questo mondo, vorrei aprire di nuovo Tinder e controllare se c’è qualche match – ci penso – ma poi sale Hyba su quel tram mezzo vuoto – Hyba mi sorride – è così naturale e spontana che mi mette subito a mio agio – così capisco che non serve provarle tutte – che le possibilità di trovare una relazione non sono direttamente proporzionali ai tentativi che fai – capisco che devo  sentirmi a mio agio, se penso così – troppe volte mi sono tirato indietro perché non ero a mio agio – tranne quella volta con Malina in cui il rapporto era ben codificato – ma non serve a niente andare a tentativi – perchè le cose stanno proprio come dicono tutti – succede quando deve succedere – stop – inutile affannarsi – come diceva una persona che ho conosciuto bene – “ci devi pensare, ma non ci devi pensare” – è inutile affannarsi – e lo prova il fatto – che mentre mi arrabattavo per trovare le attenzioni della mia crush – usando uno schermo piatto  di un social su cui osavo riporre delle speranze – lo schermo condito dalle ditate di un indice logoro mi suggeriscono “prova di nuovo”, stavolta uscirà qualcosa – nel flusso digitale – ma poi conosco Hyba – mi guarda – mi sorride – mentre al mio amico viene da ridere di gusto per la situazione – Hyba deve andare dove deve andare – non importa in effetti – ma in quel momento lo chiede a me – e parliamo – le spiego – conosco poco la zona in cui deve andare – ma nel frattempo mi sono già perso nel suo mondo – provo ad immaginarlo – avrà amici, compagni, figli, un lavoro, una cosa , le parlo in inglese – mi dice che deve fare pratica di italiano – parliamo in italiano – mi emoziona quella vicinanza – mi dice che è arrivata in città il giorno prima – abbiamo fatto la stessa strada – io misurato e senza esagerare, mi rivolgo a lei cercando di respirare ogni momenti di quegli attimi privi di replay e senza VAR – dove ci siamo visti tra noi senza essere visti da nessun altro – benissimo, a fine serata le chiedo il contatto – il telefono è troppo – meglio i social – per una persona in Italia da neanche ventiquattr’ore che altrimenti racconterà che in Italia ti chiedono il numero per strada a buffo – non penserai che sia uno stalker – o magari non è questo, le fa piacere parlare con qualcuno – e a me fa piacere pure – e mi racconta in quel suo dolce italiano stentato – da dove arriva – che cerca casa – mi chiede dove abito – Centocelle – Centocelle piace anche a lei – sorride – poi le dico “in bocca al lupo per la ricerca della casa” – lei non sembra aver capito – riformulo: “è un modo per dire buona fortuna” e qui fa un altro sorriso – e poi arriva il momento di separarci – la fermata a cui deve scendere è stata già annuciata dalla voce meccanica della metro – e lei si trova a… Cosa?… chi?… no!… lei!.. io non sono andato con lei, ho solo pensato di chiederle il contatto ma poi non te l’ho chiesto – ci siamo presentati – questo sì – sai come mi chiamo – ma non sai altro – di me – non so altro di te – Hyba – ma poi siamo sicuri che volessimo continuare a parlarci – o forse è meglio renderti protagonista qui – e raccontare di quei sedici minuti – regalati dal caso – in cui siamo stati bene di noi stessi.

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