
In un futuro distopico imprecisato, i single sono costretti per legge a trovare un compagno: hanno 45 giorni di tempo per farlo, allo scadere dei quali saranno trasformati in bestie.
In breve. Lanthimos sfrutta il grottesco ed il paradosso per delineare un film quasi interamente sociologico, nel quale la società è divisa tra single ridotti a vivere nella foresta e coppie che seguono un percorso formativo puritano e conformista.
The Lobster rientra a pieno diritto nel film bizzarro per eccellenza: in grado, in sostanza, di costruire un percorso narrativo fuori dal comune, e col merito di riuscire di farlo senza ricorrere a simbolismi indecifrabili. Il film di Lanthimos è girato interamente con luci naturali e senza trucco per gli attori, a parte qualche scena girata in notturno. La location del film è nei pressi del Parknasilla Hotel a Sneem, in Irlanda, che definisce ambienti prettamente asettici, impersonali – peraltro optando per una recitazione naturale, gelida, priva di alcun genere di drammatizzazione.
Addirittura le scene di sesso sono girate così, quasi a volerne esaltare il carattere totalmente privo di passione (al di là del godimento fisico, i personaggi si accoppiano solo per terrore di essere trasformati in animali; e questa, in un certo senso, è una chiave di lettura già corposa di per sè). L’aspetto relativo alla trasformazione, del resto, viene del tutto occultato: non vediamo alcuna mutazione in tal senso, e Lanthimos riesce comunque a risultare più sulfureo e sinistro di quanto si potrebbe pensare.
Il protagonista – Colin Farrell – è l’uomo in cui il pubblico finirà per identificarsi, uno dei numerosi “single per scelta altrui”, che si barcamena in relazioni improbabili salvo trovare finalmente l’anima gemella e (neanche fossimo in un film di Von Trier) vedere nuovamente il mondo sfaldarsi sotto i suoi piedi.
Ci sono due aspetti che in The lobster vanno evidenziati (il protagonista vorrebbe diventare un’aragosta, ovviamente, ma il senso del titolo si capisce poco; l’eventuale rilettura cromatica – legata ai colori usati nel film – in chiave “sangue blu delle aragoste” è ancora più contorta): da un lato il gusto per il grottesco e per i toni da teatro dell’assurdo, al fine di delineare una società distopica, puritana (e probabilmente non troppo lontana nel futuro) in cui essere single è diventato reato.
Dall’altro, pero’, è necessario focalizzare le due figure autoritarie contrapposte, entrambe femminili: la direttrice dell’hotel che odia i single, è biecamente tradizionalista, minaccia di trasformarli in animali se non formano delle coppie e, soprattutto, li punisce ustionandoli con un tostapane se osano masturbarsi. Sembrerebbe di averne già visto abbastanza, ma vedremo anche la capo-branco del gruppo dei “solitari” (affetti, al contrario, da una sorta di machismo onanista), di una bellezza volutamente appassita, che si rivela cinica con se stessa e con i propri simili, e mal sopporta i flirt accidentali (arrivando a punirli nei modi più atroci se qualcuno dovesse trasgredire le “nuove” regole).
Per come è impostata la narrazione, in effetti, il film porta verso una strada nichilista e senza uscita (al netto del romantic-time del finale), e si guarda bene dal dispensare toni didascalici, siano essi indipendentisti o moralisti come la prima ora di film potrebbe far sospettare. In questo senso il regista (autore anche dello script, assieme a Efthymis Filippou) si pone come mastro burattinaio della storia, producendo un risultato spiazzante girato con grande consapevolezza dei mezzi (mezzi che, nella sostanza, rasentano l’essenziale).
Per certi versi, dunque, Lanthimos costruisce una distopia amara (e, nella sostanza, credibile) giocando sui toni che aveva sfruttato ad esempio L’invenzione di Morel: l’isolamento dell’individuo è il vero protagonista, al netto di ciò che succede e crea tensione tra i personaggi. Le armi del grottesco, in questo caso, ridicolizzano l’autoritarismo che viene imposto, curiosamente, sia lato single che lato coppia: da un lato i single devono rimanere tali per essere socialmente accettati, e vengono trattati dalle coppie come appestati da cacciare nella foresta. Le coppie, dal canto loro, sono tali esclusivamente per convenienza e status. La liberazione sembrerebbe essere di scappare via e darsi alla macchia, ma non è così: grande è l’orrore del protagonista, infatti, nello scoprire che il villaggio dei solitari è peggiore del suo status precedente. I single infatti vivono sotto legge marziale (ballano esclusivamente da soli, e se flirtano devono codificarlo a gesti), e – come se non bastasse – sono costretti a scavarsi una tomba non appena arrivati.
Le coppie sono forzate a formarsi e a vestirsi in modo conformato e riconoscibile, spesso adeguandosi ipocritamente al partner e forzando i flirt più improbabili (quello tra il mite protagonista e la “donna senza cuore” è, nel suo piccolo, un vero e proprio capolavoro di humour nero). In questo senso The lobster, ben lontano dall’esaltare la condizione di single (come potrebbe sembrare all’inizio), è un film satirico a 360 gradi, che deride gli aspetti ridicoli di entrambi i gruppi sociali: chi deve per forza fare coppia – perché altrimenti sarà condannato a diventare un animale, e chi invece non deve farne (neanche se gli capita) per presunta coerenza con se stesso o rispetto per gli altri simili. Le coppie, dal canto loro, devono banalmente accondiscendere ciò che chiede loro la società: fingere di andare d’accordo, ostentare armonia e porsi come modello da seguire.
Una polarizzazione tra due estremi in cui diventa difficile, per lo spettatore, prendere le parti degli uni o degli altri. E, in questo senso, The Lobster è un vero e proprio masterpiece che esalta l’importanza della libera scelta e la bellezza della spontaneità.
Pensateci, soprattutto quando riaprirete Tinder e scoprirete che la persona con cui avete un match non vi risponde da giorni. Questo è il film perfetto da vedere, in questi casi.