Zappa: biografia di un genio della musica, con oltre un centinaio di album all’attivo
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Istrionico, iperproduttivo e imprevedibile: sono tre aggettivi che potremmo associare a diversi artisti, con gradazioni più o meno accentuate, e che a Frank Vincent Zappa potrebbero associarsi con sicurezza. Rischiando addirittura di dimenticare qualcosa, dato che su questo iconico musicista si sono scritti tomi infiniti, ricchi di dettagli biografici in bilico tra realtà e urban legend. Senza dimenticare, peraltro, la caratura del personaggio e la quantità immane di materiale (non solo musicale, ma anche video) che ha lasciato ai posteri: ben 62 album ufficiali, e altri 50 e passa pubblicati dopo la sua morte. Del resto un docufilm su di lui si attendeva da molto tempo, ed era anche singolare – se vogliamo – che non ne fosse ancora stato prodotto uno, nell’era dei biopic musicali dirompenti (modello Bohemian Rapsody). L’occasione è ancora più ghiotta, considerando che oggi, 15 novembre, è anche l’anniversario di uscita di Jazz from hell (uscito il 15 novembre 1986), forse uno dei dischi più epocali dell’artista – scomparso per un male incurabile a soli 52 anni.

Un punto di partenza fondamentale per scrivere è stata, per me, la lettura della sua unica autobiografia ufficiale, quella firmata da Peter Occhiogrosso e tradotta in italiano da Davide Pazienza. La stessa in cui è l’artista a parlare, in prima persona, raccontando le storie della propria complicata vita fin dagli esordi, arricchendo le sue pagine di illustrazioni originali e focalizzandosi sulla sua battaglia contro la censura.

Per molti versi la vita di Frank Zappa è stato un enorme flusso di coscienza, in cui l’artista sembra aver seguito senza sconti e moralismi il proprio istinto musicale: innamorato visceralmente della composizione, applicata alla musica classica come al rock, e personaggio controverso e contraddittorio come gli innumerevoli che ebbero a che fare con lui negli possono ricordare fino ad oggi. Una quantità industriale di musica originale da lasciare ai posteri, soprattutto, tanto da rendere vano qualsiasi tentativo di riassumerla e definirla senza rischiare di scrivere svarioni e imprecisioni. Ai posteri l’ardua sentenza, che poi tanto ardua non è: Zappa è stato uno dei principali musicisti del Novecento, ci sono pochissimi dubbi a riguardo, e i posteri che lo osannano – viene suggerito anche nel film – probabilmente non hanno ancora contezza di quanto e cosa sia stato prodotto, e forse lo hanno capito solo fino ad un certo punto.

La musica di Zappa, infatti, ha spaziato dall’art rock all’elettronica, passando per il blues, la psichedelia, la musica classica, l’heavy supercazzol e chissà che altro.

Frank Zappa  ha attraversato varie fasi musicali e compositive, che il film Zappa mostra suddivise idealmente in quattro parti: il periodo anni ’60, in cui si avvicina al mondo dei freak e della  psichedelica rock in voga all’epoca, rigettando al tempo stesso il mondo hippie e le loro simpatie (non era musica per loro, viene detto chiaramente).

Abbiamo poi il periodo anni 70, quello degli eccessi e delle trasgressioni, ricondotte in realtà ad una condotta sessuale non troppo fedele alla consorte, e al tempo stesso andando in controtendenza e negandosi per tutta la vita l’uso di qualsiasi droga (sconsigliandone l’uso ai musicisti con cui collaborava, da Vinnie Colaiuta a Steve Vai).

Arrivano gli anni ’80 dai capelli cotonati, dai look che oggi sembrano pacchiani, in cui Frank inizia a costruirsi un’immagine elegante e rispettabile, dedicandosi alle relazioni internazionali (con la Cecoslovacchia, subito dopo la rivoluzione di velluto), arrivando a presenziare ad un processo contro la censura nella musica, da parte di un’associazione filo-governativa indispettita dall’atteggiamento oltraggioso di molte rockstar, che Frank difese sempre a spada tratta.

Troviamo infine il periodo anni ’90, in cui l’artista inizia ad affiancare alle proprie attività quelle di direttore d’orchestra, che accetta con entusiasmo – e una punta di scetticismo – per via dei pochi fondi investiti nel settore, sottolineando come sia impossibile essere un musicista di professione negli Stati Uniti, e arrivando ad un concerto finale (quando già stava male, purtroppo) epico quanto commovente, conclusosi con ben 20 minuti di standing ovation. La stessa standing ovation che continuiamo a tributargli virtualmente ancora oggi, del resto.

Zappa rielabora lo stereotipo del rocker ignorante, rendendolo quantomeno poco prevedibile, e non solo: propone l’opportunità di allegare i testi ai booklet dei dischi, oltre a lottare aspramente contro la censura perbenista USA in un periodo in cui – se non fosse stato per lui, probabilmente –  l’intera industria rock sarebbe collassata in un conformismo soffocante quanto sterile. E dire che non era neanche coinvolto direttamente lui in quella polemica, in cui personalità vicine al governo USA vomitavamo improperi contro il rock di ogni ordine e grado, per via della scabrosità dei tuoi testi: era coinvolto Prince, di riflesso alcune band heavy-metal come Judas Priest ed Alice Cooper (che compare più volte nel docufilm, e riconosce all’etichetta discografica di Zappa, uscita prima di chiunque altro come etichetta indie, di aver salvato la sua carriera). Interessante, poi, come nel film venga anche riferito Lenny Bruce come riferimento zappiano di massimo grado, in un periodo in cui venne arrestato più volte per motivi spesso grotteschi (solo di straforo vengono mostrati concerti di Zappa che vengono, tra balli deliranti e musicisti-teatranti impegnati in danze convulse e avanguardistiche, interrotti saltuariamente da agenti di polizia sul palco).

Zappa è stato diretto da Alex Winter, esce nel 2020 e viene distribuito l’anno dopo in pochi cinema selezionati del nostro paese. Winter è anche un regista di culto, peraltro, che dovremmo ricordare per via del suo primo film da regista, l’horror grottesco Freaked (presentato in Italia al Fantafestival, nel lontano 1994). Il docufilm in questione si caratterizza soprattutto per avuto accesso ai footage inediti dall’archivio personale dell’artista, a cui Winter ha avuto accesso (cosa tutt’altro che semplice da ottenere, da quello che sappiamo) grazie alla collaborazione della Zappa Family Trust. Un’occasione più unica che rara per visionare live inediti così come filmini amatoriali che Frank registrava in famiglia, alla ricerca del lato divertente della vita, nonostante le umili origini (il padre lavorava nell’industria militare, e nella sua infanzia era normale avere delle maschere antigas in casa per paura di fuoriscite accidentali di gas nervino).

Contrariamente alla voce diffusa sul web da alcuni mesi, peraltro, il film non è stato propriamente finanziato in crowdfunding, ma la campagna avviata su Kickstarter era mirata a preservare i contenuti del deposito (citato più volte nel film) che costituisce l’archivio di famiglia. Un archivio in cui esistono ancora oggi registrazioni di jam session tra Zappa ed Eric Clapton, tanto per fare un esempio. Il film che è risultato da tale conservazione è stato, in realtà, a sua volta finanziato da vari investitori.

E nel frattempo vari musicisti che hanno collaborato con lui – da John Lennon a Yoko Ono, passando per Steve Vai, Ian Underwood, George Duke, Ruth Underwood e Alice Cooper – sentitamente ringraziano, commossi e devastati da una dipartita troppo precoce, che ha sfondato la “quarta parete” della musica colta miscelata col rock, e che (detto francamente) non ce la meritavamo. Non così in fretta, Frank: soprattutto oggi, nell’era delle boy band usa e getta, della musica visuale in cui conta più essere fighi che preparati musicalmente, delle hit elette a furor di popolo sui social. Ti avremmo voluto con noi ancora per un po’, in effetti. D’accordo qualsiasi cosa e qualsiasi genere, amici generalisti, ma lasciate vivere per sempre Frank Vincent Zappa.

Considerato ad oggi uno dei migliori chitarristi di ogni tempo, influenzato in parte dal rhythm and blues e dalla musica classica, divenne sostanzialmente un polistrumentista sperimentatore. Zappa inventò non solo un genere rock del tutto inedito (leggasi: colto, senza essere didascalico ma anzi, che virava spesso sull’autoironico), si considerava prima compositore e solo dopo, molto alla lontana, rockstar. L’equilibrio tra compositore fuori dalle righe e VIP convenzionale, del resto, è alla base della costituzione di ciò che si vede nel film, che documenta in modo maniacale ogni dettaglio  della sua vita, ripescando vari filmati inediti e di archivio. Ne emerge un Frank Zappa sostanzialmente coerente con la biografia ufficiale raccontata nel libro succitato, e ciò dimostra la grande scrupolosità filologica della regia, apertamente fan dell’artista.

Il contributo più importante che emerge dall’opera, del resto, è forse proprio quello di aver proposto in ottica libertaria e anarcoide un genere musicale che si erse, grazie alla sua inventiva, in modo mai visto prima, in bilico tra mille sottogeneri del periodo, liberando il musicista medio dagli stereotipati sesso, droga e rock’n roll. Del resto, oggi, se molte persone in Italia si sono interessate alla sua musica lo dobbiamo anche, in misura più grande di quanto non si voglia ammettere, ad Elio e le storie tese, i primi musicisti “zappiani” che l’Italia ricordi (quantomeno i più famosi).

Argomento trattato in lungo e in largo anche questo, più sterminato della sua stessa discografia e riassunto da un frammento televisivo, sopravvissuto fino ad oggi, in cui (evocando grottescamente la scena dei tre uomini col papillon che parlano di aborto, vedi Bojack Horseman) tre conduttori si pongono verso di lui con modi tutt’altro che empatici, sottolineando la necessità di un intervento repressivo verso le forme di arte sataniche e/o sessualmente esplicite.

Il quadro è straordinario da un punto di vista storico, soprattutto per l’atteggiamento di Zappa che rimane quasi del tutto imperturbabile, arrivando a chiedere all’interlocutore più aggressivo se gli piacerebbe sculacciarlo (e mandandolo apertamente a quel paese, ad un certo punto). È incredibile come si tratti, peraltro, di una scena già vista centinaia di volte in altre sedi, che abbiamo finito quasi per interiorizzare (purtroppo) fino ad oggi.

Il suo intervento in tribunale contro il PMRC (l’associazione nata nel 1985 per imporre la nota etichetta sui dischi considerati esecrabili, Parental Advisory Explicit Content, la stessa che Elio fece parodisticamente apparire su alcune sue cassette, in forma maccheronica come “Avviso ai parenti”). “Le mogli del Grande Fratello” a cui si fa ironico riferimento nella deposizione zappiana sono, per inciso, le fondatrici del PMRC, tra cui Mary Elizabeth Tipper Gore (riferita peraltro dal titolo di un disco dei Death, Scream Bloody Gore del 1987), Susan Baker, Sally Nevius e Pam Howar. Si pone l’accento anzitutto sulla libertà in cui hanno bisogno di muoversi gli addetti ai lavori, sottolineando come l’intervento censorio fosse limitante in misura economica, oltre che artistica.

I ragazzini hanno il diritto, dice Zappa, di sapere che esiste qualcosa di diverso dal pop, data la loro naturale propensione all’ascolto, e forse negarglielo rientra in una violazione di un diritto umano. Battersi contro lo stigma sociale per cui un musicista censurato impiegherebbe anni a rifarsi una reputazione, salvo perderla per sempre, Zappa esprime splendidamente il proprio punto di vista, tanto da essere attuale ancora oggi.

Il risultato fu che, probabilmente in tutta risposta, proprio il suo successivo album Jazz from hell venne etichettato come explicit, nonostante fosse un disco strumentale e – quasi certamente – per via del titolo G-Spot Tornado (parlare del punto G è da maleducati, sembrerebbe). E adesso siamo tutti un po’ la melma, verrebbe da dire citando un suo vecchio brano, ora che tutto è cambiato e chissà quanto, ancora, dovrà cambiare, Frank è morto da tempo: lunga vita a Frank.

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