Tre reduci del Vietnam, contratto incosapevolmente un misterioso virus che li rende cannibali (gnam-gnam), si reincontrano in circostanze fortuite dopo qualche tempo. Due di loro, in particolare, sono stati ricoverati all’interno di un ospedale psichiatrico, mentre il terzo vive con la moglie tormentato da incubi atroci (no: non è Allucinazione perversa, tranquilli). Il passato che tortura l’ex militare diventa un pretesto per mostrarci la diffusione del contagio: uno di quelli che raramente si erano visti su uno schermo.
In breve: nonostante il titolo faccia sospettare un coefficente trash superiore alla media, si tratta di un buon film, ricco d’azione e gore (alcune sequenze sono vivide nell’immaginario cinefilo ancora oggi), e con vari spunti di interesse per i veri appassionati del genere. Da rivedere e riscoprire, specie per gli amanti degli action-movie a tinte splatter.
Un contagio che non denota dei veri e propri zombi, in questo caso, bensì degli esseri umani che senza andare troppo per il sottile se ne vanno in giro sfuggendo alla polizia in cerca di carne fresca. Niente camminate da morti viventi, niente apocalissi imminente, niente simbolismi alla ricco-magna-povero: azione, scazzottate, sparatorie e… banchetti cannibalici quando meno ve lo aspettate. Come spesso accadeva nel periodo, infatti, la trama è ben congegnata, avvince ed interessa, ma soffre di alcune forzature (se vogliamo piuttosto passabili, rispetto alla media). La parte veramente debole appare proprio quella horror (a volte un po’ scollegata) rispetto alla poliziottesca (fluida, nitida, chiara: semplicemente immensa).
Antonio Margheriti (qui tributato come Anthony M. Dawson) dirige con gran classe un film noto con svariati titoli (ad esempio Cannibals in the streets). La violenza del film è stata esaltata dagli effetti speciali di Giannetto De Rossi: oltre alla scena cult del “buco nello stomaco” ad uno dei protagonisti, si segnala il singolare smembramento di un cadavere in primo piano mediante un seghetto circolare. Un po’ poco per urlare al capolavoro, ma se contate l’interpretazione azzecatissima di tutti i personaggi potete convincervi che valga la pena di riscoprire quest’opera. Senza contare che secondo me la scena migliore è proprio la celebre “masticata” finale dalla finestra: diretta, essenziale, inattesa e cinica al punto giusto.
Un film di genere fatto di azione continua, ritmo incandescente, colpi di scena e scazzottate degne di uno spaghetti western, dunque, che pero’ (colpo di scena) degenerano in ferocissimi atti di cannibalismo. Un film decisamente spiazzante, anche nel modo in cui ritrae alcuni tabù (su tutti, la storia tra l’uomo adulto e la ragazzina – Cinzia De Carolis – vagamente erotomane). Non era facile farlo, e ci sta. Al tempo stesso lo stesso erotismo diventa desiderio di mangiare fisicamente il partner, o aspirante tale: eros fatto con stile, velato, accennato e feticista del corpo-carne. Inutile che stia a dilungarmi ulteriormente: questo film va visto, gustato, assimilato e divorato – neanche a dirlo – dalla prima all’ultima scena.
Sarebbe il caso di indagare – e lo dico di sfuggita, per concludere – sul perchè Tarantino, un regista maniacalmente amante dei dettagli, dei primi piani e ultra-perfezionista, ami così tanto prodotti del genere, con tutti i difetti ed i problemi che si portano appresso.
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