Allucinazione perversa di Adrian Lyne è un film immarcescibile

Quale mente contorta potrebbe tradurre l’originale titolo “La scala di Jacob” (Jacob’s Ladder) come “Allucinazione perversa” – manco fosse un porno-horror di Joe D’Amato? Prendiamo quindi atto del fatto che l’intestazione del film è stata forse mal interpretata, e – al di là del fattore linguistico – è piuttosto grave perchè fa in parte fraintendere il contenuto del film. “Allucinazione perversa” assume i connotati di un horror sovrannaturale con riferimento storici ben precisi, ed è interessante anche solo per questo motivo.

In breve: un intreccio piuttosto classico nel suo genere, che lascia affascinato lo spettatore ed avrebbe potuto essere partorito dal primo Stephen King.

“Ho visto l’inferno…”

Molto della pellicola sembra essere incentrato sui ricordi: memorie che tormentano il passato del protagonista, reduce dalla guerra in Vietnam, divorziato, con un figlio morto misteriosamente e via dicendo. Un film che a detta di molti evoca le atmosfere tenebrose di una celebre altra pellicola, che non cito – anche perchè molte altre recensioni lo fanno – per evitare di entrare nella categoria di quelli che bruciano i finali e rovinano le visioni altrui, anche quando non ce n’è bisogno. In effetti “Allucinazione perversa” è molto coinvolgente e ben realizzato: un continuo alternarsi di tranquillità e situazioni schizoidi, morti misteriose, non sequitur spiazzanti ed una teoria non confermata, e neanche troppo approfondita, secondo la quale i militari americani in Vietnam sarebbero stati drogati con un allucinogeno (il BZ, detto tecnicamente 3-chinoclidinile benzilato) per combattere in modo più efficente. A quanto risulta dall’intreccio, in sostanza, l’uso di questa sostanza sarebbe arrivato ad indurre i militari ad uccidersi tra di loro.

Non pensate ad un film tutto azione e niente arrosto, comunque, perchè in molti momenti prevale l’aspetto “meditativo” – non a caso il personaggio di Jacob possiede un master in filosofia: esso contrappone l’idea di un bene che tende a soccombere (noi) ad un male deforme, rappresentato da freak e vicende incomprensibili che tormentano il protagonista. Questo potrebbe non piacere – anzi, di certo non piacerà – ai fan del cinismo materialista di scuola fulciana o argentiano: siamo comunque abbastanza distanti dai lidi dell’orrore “spiritico” puro (“L’esorcista” e compagnia), che come forse saprete “aborro” con tutte le mie forze nella quasi totalità dei casi.

Tutti parlano fin troppo bene di “Allucinazione perversa“, e questo devo riconoscere che mi ha fatto sospettare la “beffa” conclusiva: invece no, devo segnalare che si va migliorando nel finale, gli attori convincono e l’intreccio avvinghia, intriga ed incuriosce. Sul versante difetti, direi che il tono dell’intera vicenda assume pieghe forse troppo lacrimose,  e mette in secondo piano il vero nocciolo del film (i soldati erano davvero “dopati” dal governo, o no?) favorendo l’aspetto in qualche modo più “hollywoodiano” (le due storie d’amore, le amicizie perse, il figlio morto). Il finale amarissimo, infine, oggi come oggi assume i toni di un deja-vu colossale e, quantomeno, finisce per dare a Cesare quel che è di Cesare: nessuno, o quasi, inventa mai nulla, e a certe conclusioni ci era arrivato – per esempio – Lucio Fulci circa nove anni prima del 1990. Questo mancanto riconoscimento un po’ infastidisce, ma purtroppo è una prassi anche piuttosto diffusa (altro esempio più clamoroso: Zeder è stato riscoperto da qualche anno, “Cimitero vivente” è un film di cui fin troppo si è parlato).

Tutti i demoni da combattere, i peggiori, i più invincibili, stazionano testardamente nella testa di Jacob: e lo spettatore non fa che intuire, cogliere vaghi riferimenti, spaventarsi. Da segnalare la figura della compagna di Jacob: sexy ad intermittenza (ed in questo simile ad Elizabeth Berridge ne “Il tunnel dell’orrore”), sempre molto ambigua e splendidamente delineata, capace di farci saltare sulla sedia con le sue continue incomprensioni e sussulti. Da ricordare la bellissima scena-incubo in cui un gruppo di chirurghi cerca di fare una lobotomia al protagonista, che è immobilizzato ad un lettino di ospedale: ai più attenti non potrà non ricordare la sequenza analoga ne “La mosca” del canadese Cronenberg, a cui il film deve forse qualche vaga influenza (di forma, e non di contenuto). Pensare a “La scala di Jacob” rende molto efficentemente, alla fine, quella che è la chiave di volta per comprendere questa intricata opera, che materializza il senso di ossessione e di paranoia dell’insensatezza della guerra ma che cerca, forse come suo unico difetto, di far presa facile sul grande pubblico sfruttando stereotipi da film per famiglie.

“La sola cosa che brucia di te all’inferno è la parte che rimane aggrappata alla vita (Eckart) …. i ricordi, gli affetti”

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