Quattro mosche di velluto grigio: è uno dei migliori (e meno considerati) film di Dario Argento

Terzo episodio della trilogia cosiddetta “animalesca” di Argento: rimasto per anni inedito ed introvabile per via di complesse questioni di diritti, era disponibile solo in una rara videocassetta – reperibile nelle migliori videoteche fino a qualche anno fa. Ora finalmente, direi, esiste in DVD in ben due versione (americana ed europea). E’ probabilmente il migliore della trilogia, certamente superiore a “Il gatto a nove code” e anche all’ottimo “L’uccello dalle piume di cristallo“.

In breve: immensamente sottovalutato per via dei problemi di distribuzione che ha sofferto per oltre trent’anni. Un Dario Argento delle origini, intenso e pauroso.

Roberto Tobìas è un batterista di un gruppo rock romano – nella realtà le musiche sono tutte di Ennio Morricone, perseguitato da un misterioso stalker che lo minaccia con lettere, fotografie e aggressioni. Dopo averlo affrontato all’arma bianca, ed apparentemente ucciso all’interno di un vecchio teatro – le cui tende rosse ricordano tremendamente quelle in cui avveniva la dimostrazione della medium di Profondo Rosso – Roberto si accorge che qualcuno, di cui scorgiamo solo la maschera grottesca, lo sta fotografando. Durante una festa a casa sua, si ritrova le foto della collutazione in mezzo ai suoi dischi, quasi a testimoniare che il maniaco è molto vicino a lui ed ai suoi cari. Ad aiutarlo a svelare il mistero, ovviamente senza ricorrere alla polizia (siamo pur sempre in un film di Argento, per intenderci), sarà il vecchio e fidato amico Diomede: un indimenticabile Bud Spencer amante della vita bucolica, per una volta lontano dallo stereotipo dell’uomo dal cazzotto facile.

“Sai mica dov’è Dio? Mi sorprendi fratello: Dio è qui, Dio è là! …adesso è al fiume a pescare”

Non sarà il capolavoro giallo di Argento, ma certamente siamo di fronte ad uno dei suoi film migliori: giocato un po’ su vaghi elementi sovrannaturali e molto di più sull’ambiguità e sul malessere del rapporto di una coppia (a quanto pare espressione dei problemi del regista con la moglie che aveva all’epoca), “Quattro mosche di velluto grigio” è capace ancora oggi di mantenere ben teso il filo della suspance, senza mai appesantire l’intreccio (problema piuttosto comune nei gialli dell’epoca). Il risultato diventa complessivamente gradevole: il film è serissimo nei suoi sviluppi, ma i momenti di paura sono intervallati con intelligenza da siparietti presi in prestito dal miglior cinema comico dell’epoca, sempre funzionali alla trama e mai sbroccati. Basti pensare, a tale riguardo, al postino occhialuto (addirittura scambiato per l’assassino) che recapita riviste porno per errore alla vicina di casa di Roberto, o il simpatico “Professore” (interpretato da Oreste Lionello), o anche solo al pappagallo di Diomede di nome “Affanculo“.

“Non piangere! Imbecille! Non si deve mai piangere!”

Questo film, quindi, indaga con gran classe sulla natura della psiche umana, presentando gli effetti devastanti di un’educazione repressiva e propinando la giusta dose di sangue e violenza, senza mai dimenticare l’obiettivo principale di un film di genere: divertire, intrattenere e tenere “sveglio” il pubblico. Tanto meglio se ciò avviene con la mano magistrale di Argento ed il suo gusto direi “gotico” per una fotografia nitida, profonda e dettagliatissima. Elementi topici di “Quattro mosche di velluto grigio“, che poi ritorneranno nel seguito della cinematografia del regista, sono: la spiegazione pseudo-scientifica dell’enigma (ovvero la faccenda della retina che rimarrebbe impressa con l’ultima immagine vista dalla vittima), la macabra decapitazione del condannato in Arabia Saudita come premonizione onirica, lo stesso finale a sorpresa degno di un racconto di Edgar Allan Poe, il killer che conosce  bene la vittima, e che agisce per via di un insospettabile trauma infantile.

Da avere in DVD ad ogni costo, per ogni amante della cinematografia dell’epoca.

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