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Bohemian Rhapsody: un bel biopic, e non ci sono dubbi

Diretto dal Bryan Singer noto per tanti altri film diventati celebri (I soliti sospetti, ad esempio), Bohemian Rhapsody è un classico biopic sulla falsariga di molti altri di questi anni, nello specifico quelli dedicati alle figure storiche rilevanti o particolamente forti (viene in mente, almeno in parte, il tono romanzato e spesso auto-ironico di Churchill del 2017, diretto da Jonathan Teplitzky).

Al netto di qualsiasi considerazione legata all’accuratezza biografica della storia dei Queen e di Freddie, non è banale parlare di questo film: al di là dei dettagli legati alla fedeltà ai fatti (che interessano solo i fan, destinatari quasi esclusivi del film stesso) si tratta anzittutto di un buon lavoro, molto scorrevole quanto privo di momenti morti. Al tempo stesso non mancano le lungaggini (che per una volta sembrano quasi desiderabili), quali ad esempio la spettacolare ricostruzione dell’esibizione al Live Aid, tanto fedele quanto (forse) non strettamente necessaria, che rischia un po’ di sconfinare nel puro esercizio di stile. Ma come si potrebbe seriamente fare una critica del genere ad un film nato volutamente con intenti di riscoperta e celebrazione di una delle rock band del secolo?

Bohemian Rapsody è esattamente ciò che il pubblico si aspetta: un film dai toni epici ed altamente emotivi, al quale sarà quasi impossibile rimanere indifferenti. Questo, ovviamente, al netto delle licenze poetiche che il regista ha concesso alla trama, in certi punti poco fedele alla realtà e con vari dettagli volutamente discrepanti, a tutto vantaggio della componente emotiva che non degenera mai nello stucchevole. Rimane anche la considerazione che il film sia costruito soprattutto sui brani più famosi dei Queen, quelli che il pubblico medio non esiterà a riconoscere e (purtroppo, c’è da dire) a pieno svantaggio di brani meno noti (e forse più significativi musicalmente) che non vengono citati nemmeno di striscio.

Del resto se Tarantino ha potuto reinventare da zero, in modo tanto verosimile quanto irreale, parte della storia della Germania in un suo film – vedi il finale in pompa magna che mostra un attentato mai avvenuto, nella realtà storica – non ci sarà nulla di sbagliato nel visionare ed assistere ad un film del genere, del quale è opportuno soprattutto segnalare l’interpretazione di Freddy, reso alla perfezione a livello fonetico se messo a confronto con le interviste ed il modo di parlare dell’artista di origine parsi. Sembrano dettagli di poco conto perchè è il collettivo del film che conta, ma non lo sono: del resto, anche per questo motivo, doppiare questo film sarebbe stato un delitto, motivo per cui è stato (giustamente) proposto anche in Italia in lingua originale sottotitolata.

Nella ricostruzione dell’intreccio – un biopic ironico quanto struggente, nel quale spicca la ricostruzione dell’ambiente mondano omosessuale, lo stesso che si era visto anche in Cruising – emerge ovviamente la figura di Freddy nella sua completezza: sensibile, istrionico, edonista, sentimentale quanto irresponsabile e festaiolo, a differenza dei più coerenti (o prevedibili, se preferite) altri membri della band (May, Taylor, Deacon). Questa contrapposizione, del resto, finisce per esasperarsi ed andare ben oltre la realtà delle cose, ma con il risultato di favorire la bellezza del film, mantenendolo sempre accattivante.

Ancora oggi rimane incredibile il ritratto che fuoriesce della storia della band, nonostante il tempo sia trascorso inesorabile e nonostante, soprattutto, il film si rivolga a generazioni di fan che nel frattempo hanno messo su famiglia, la stessa che Freddie amava ed odiava al tempo stesso in nome della propria orgogliosa individualità, ma anche di un talento incredibile quanto, ad oggi, scolpito definitivamente nella storia della musica.

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