Clint Eastwood si conferma un regista di gran classe e di enorme sensibilità verso una problematica tutt’oggi molto sentita, che riguarda l’effettiva affidabilità delle forze dell’ordine. Basandosi su un fatto vero, e prendendo inconsapevolmente qualche idea in prestito da “Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto“, esce fuori un film fenomenale, attualissimo – per quanto ambientato circa un secolo fa.
In breve: uno splendido film del Clint regista, incentrato sulla discriminazione e sull’intolleranza.
Lo scenario è quello di una Los Angeles anni ’20 in cui il proibizionismo è l’ultimo dei problemi: Christine Collins è una madre sola (Angelina Jolie, in un’interpretazione superba) che viene a sapere della scomparsa del figlio. Rivolgendosi immediatamente alle autorità vede snobbata la sua richiesta, e nel frattempo nessuna traccia del ragazzino. Dopo qualche tempo il capo della polizia annuncia di aver ritrovato: ma non si tratta del figlio della protagonista, bensì di un alias indottrinato dalle autorità per occultare i fatti. Esce così fuori la crudeltà ed il cinismo del L.A.P.D., che pur di non guastare la propria immagine di infallibilità accusa la donna di essere nevrastenica, di non aver avuto cura del proprio figlio ed arriva a farla rinchiudere in manicomio.
In particolare il capitano J.J. Jones (un pazzoide ed esaltato Jeffrey Donovan, che qualcuno ricorderà nell’infelice Blair Witch Project 2) si rivela un mostro macchinatore, abituato a manipolare i mezzi di informazione e a capovolgere sistematicamente la realtà. Fortunatamente il reverendo Briegleb (John Malkovic) si occuperà del caso, e riuscirà non solo a liberare la donna, ma ad intentare una causa civile contro le irresponsabili autorità.
Nel frattempo esce fuori la testimonianza a sorpresa da parte del piccolo cugino di un serial killer, il quale racconta di rapimenti di bambini ed omicidi compiuti dal proprio parente. A quanto sembrerebbe tra gli uccisi vi è anche il figlio di Christine: distrutta da questa ennesima tragedia, fa causa alla polizia e fa liberare tutte le detenute con “codice 12” (quello per “reati d’opinione” contro la polizia). Dopo l’inevitabile condanna da parte del giudice contro il capitano e le forze dell’ordine coinvolte, rimane da risolvere il nodo del figlio scomparso, che sembra essere in realtà sopravvissuto sulla base di un’ulteriore testimonianza. Tuttavia nel frattempo il film finisce, e la ricerca rimane insoluta, lasciando vivo il vero messaggio anti-repressivo e dall’ottica prettamente umana ed individualista.
Notevole, nel film, la rappresentazione del manicomio: un mondo da incubo degno di un nazisploitation, assolutamente realistico e reale, dove tra un elettroshock e l’altro si scopre che moltissime pazienti sono sottoposte ad un particolare codice (il 12) che riguarda proprio accuse all’onorabilità della polizia. Esce fuori così un quadro di forze dell’ordine corrotte, violente e capaci dei peggiori raggiri pur di mantenere uno status quo che serve solo ad auto-nutrirsi. Il tutto senza la retorica tipica di questi casi, ma concentrando le vincende sul dramma della madre come persona sola contro il Potere.
Un gran film, senza sbavature, senza momenti di noia, e con una trama eccellente: da vedere e rivedere.
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