Dogville: benvenuti nel panottico di L. V. Trier

Dogville è il nome della piccola comunità che ospita la figlia di un brutale gangster della zona, sfuggita al controllo del padre: dopo le iniziali titubanze degli abitanti la donna viene accolta, cercando subito di rendersi utile e farsi benvolere da tutti.

In breve. Uno dei migliori Von Trier di sempre: sia per le scelte stilistiche (il film è girato su un singolare set panottico del tutto privo di muri) che per la storia; un perfetto equilibrio tra dramma, grottesco e parodia del romanticismo facile come solo il regista danese è in grado.

Se Antichrist utilizzava l’espressività dell’horror moderno (senza farsi vincolare dallo stesso), Melancholia quello dell’ apocalittico e Il grande capo parodiava, a modo proprio, la commedia americana con un tocco di cinismo in più, ancora una volta con Dogville il linguaggio di Von Trier trova una nuova via di mezzo: partendo da un’impostazione prettamente teatrale del lavoro (e lo si capisce subito dalla scenografia essenziale), il regista scrive, e dirige, l’ennesimo dramma incentrato sull’inaffidabile imprevedibilità degli esseri umani.

Per farlo, questa volta sfrutta una storia solo in apparenza melensa e dai toni scontati – come pensarla diversamente di fronte ad una protagonista ricca e bella che incontra casualmente una comunità di poveri? – per farla diventare un dramma omnicomprensivo, nel quale è davvero difficile non immedesimarsi, per quanto sia complesso stabilire con certezza chi debba essere il vero protagonista. Quello che conta è che, anche solo nel dubbio, lo spettatore resta incollato alla poltrona per scoprire come andrà a finire la storia.

Difficile quindi definire con precisione il genere di Dogville (dire “drammatico” ha davvero poco senso, a meno di prendere alla lettera il significato del termine), dato che le influenze sono tante – teatro-thriller potrebbe essere una definizione calzante, ammesso che sia lecita – che parte quasi come un felice musical e poi, col trascorrere dei minuti, diventa multiforme, claustrofobico ed in parte anche di denuncia. Se questo potrebbe risultare indigesto a parte del pubblico (assieme alla durata considerevole della storia, dato il film originale dura 171 minuti e quello italiano “solo” 138), c’è da dire che nulla è davvero di troppo e, anzi, l’idea di aver tagliato Dogville anche solo in parte risulta sgradevole, guardandolo. Non fosse altro che si tratta di una storia davvero originale, vagamente ispirata ai lavori teatrali di Brecht da cui, sapientemente, il buon Von Trier eredita il gusto (diremmo gusto sadico, per maggiore precisione) per lo straniamento del pubblico.

In un set semivuoto come questo, del resto, la bellezza del film è figlia soprattutto della bontà delle interpretazioni (tutte sopra le righe, per inciso): ma la Kidman è, in particolare, semplicemente perfetta, senza sbavature, molto abile a conferire il tono alternativamente drammatico e grottesco, richiesto dal suo complesso personaggio. Il più corposo messaggio di fondo, di fatto, rimane legato all’ambientazione, con la domanda incessante: la tranquillità dei posti in cui siamo nati, sicuri e a misura d’uomo, sono davvero quelli che sembrano? Sono davvero i migliori per poter vivere un’esistenza degna? I fuggitivi di Dogville parrebbero aver trovato una risposta a queste domande, e solo la visione del film potrà soddisfarle.

Il clima surreale in cui tutti, di fatto, vedono chiunque altro (e si sorvegliano a vicenda, in effetti) è, molto probabilmente, la vera chiave di lettura del film: una società completamente autogestita può davvero esistere? Chi pagherebbe, in caso fallisse? L’interpretazione del significato di Dogville è comunque lasciata al pubblico: chiunque potrebbe leggere nell’intreccio, a propria scelta, l’espressione brutale dell’ambiguità redneck, l’arrivo di un messia (la Grazia) sulla Terra, piuttosto che una denuncia del mobbing sui luoghi di lavoro o, ancora, una validissima riedizione del panoptico di Bentham (vengono anche in mente parallelismi con Haze, Cube e The Experiment, ma su questo bisognerebbe scrivere a parte).

Cosa che peraltro appartiene al linguaggio del regista, non nuovo a scritte esplicative in sovraimpressione e a momenti in cui gli attori sembrano sfondare la quarta parete, e che in questo film sono espresse come un vero e proprio saggio di semplicità. Grace Margaret Mulligan è la donna sola e spaventata, ricercata da gangster spietati e, almeno inizialmente, senza volto: Tom Edison, Jr. è la sua romantica controparte, che dovrebbe prenderne le difese. Prendere questo topos e ribaltarlo come un calzino, a mio avviso, non era per niente banale: Von Trier ci è riuscito soprattutto senza passare per intellettualismi inutili. Questo permette di tenere l’attenzione molto ben focalizzata sull’intreccio, che procede in modo ritmato e segue, di fatto, l’evoluzione che i tratti dei personaggi sembrano suggerire.

È davvero raro che un film così lungo possa essere altrettanto accattivante, anche perchè Von Trier riesce a mandare messaggi profondi senza, di fatto, appensatire la visione senza imporre sforzi inutili o accavallamenti di neuroni del suo pubblico. L’idealismo innocente di Grace, “Grazia” di nome e di fatto, sarebbe potuto essere tranquillamente parte di una qualsiasi commedia leggera (almeno all’inizio): la sua disponibilità ed umiltà sembrano, a prima vista, del tutto esemplari. Chiunque al posto di Grace si comporterebbe allo stesso modo, almeno fin quando il velo di ipocrisia e doppiezza della cittadinanza (almeno per buona parte) si sveleranno agli occhi dello spettatore. Il finale, poi, dopo varie digressioni ed autentici pugni nello stomaco, è quanto di meno ovvio si possa presentare ai nostri occhi: un atto di liberazione o una vera e propria Apocalisse che, in altri contesti, avrebbe portato la storia nell’unica direzione ammissibile dal cosiddetto “buonsenso” (o buonismo).

Von Trier non ci pensa nemmeno e firma così, probabilmente, uno dei suoi migliori film di sempre.

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